Il santuario perduto

Questa volta non c’é la foto perché questa é la storia di un santuario che é andato perduto.
Era stato trovato un giorno da G. durante uno dei suoi giri, quelli  dell’ora del custom, cioè l’ora nella quale si può andare in moto verso il tramonto;  chi conosce la straordinaria carica di magia di questa ora forse potrà meglio comprendere quanto viene narrato di seguito.
Era una chiesa abbastanza anonima, sulla cima di una collinetta, una come le centinaia di altre che la circondano nella sconfinata marea dell’ondulato preappennino marchigiano.
Si arrivava alla chiesa con  una scalinata, la facciata a cuspide nello stile incerto genere condominio popolare anni 50, ma resa speciale da  un  particolare notevole: una scritta  che indicava che il “santuario” era dedicato al “Beato XY, sarto” o  forse al “Beato WJ, calzolaio” (o era un barbiere?).
Anche io lo avevo visto un giorno; mi ci aveva portato G. in uno dei giri in auto, quelli che obbediscono alla regola  “si prende ogni strada che abbia l’aria che non l’abbiamo mai fatta prima”.
Stavamo viaggiando nel paesaggio marchigiano  doc: niente di eccelso, niente di speciale, un paesaggio che cerca di non farsi notare troppo.
Colline che succedono a colline, filari di viti, case isolate, strade  poco asfaltate: un paesaggio burbero, con ogni tanto un macchietta di querce, siepi di rovi,  tralci di vitalbe che si arrampicano su.
Il paesaggio del nostro preappennino, senza un segno che lo distingua  da centinaia di posti…..
E siccome niente lo distingueva da nient’altro……. il santuario é andato perduto!
Si, perché ormai da anni  non  riusciamo più a trovarlo benché lo abbiamo cercato tanto, anche se non ci si parte da casa apposta, ma in sottofondo c’è sempre il desiderio di rivederlo.
Ogni tanto alcuni indizi (una certa curvatura della strada, una particolare ondulazione della linea  dell’orizzonte, una sfumatura speciale del colore dell’argilla, un non so che di atmosfera di  “qualunquità”) fanno sorgere la speranza.
Succede in tutti e due allo stesso tempo: un’occhiata  di intesa e dentro  di noi ci diciamo “E’ qui”.
Allora via, due o tre tornanti, tutto porta, tutto sembra proprio come lo abbiamo nella testa, come lo ricordiamo e come ormai da anni lo ricostruiamo mentalmente.
“Si, qui il gruppo di case, piccolo il giusto…il colore é quello, ci sono anche le querce….ecco la scalinata!
Ma non c’é nessuna scritta, é la chiesa della Madonna del…
Niente calzolai né sarti né beati.
Chiese sperse nel niente: case con gli usci sbarrati, di gente che é andata a Latina o ad Aprilia e torna se torna  solo per le ferie.
Case arredate con i salotti smessi sedie spaiate e “tinelli marro”, che hanno gli infissi un po’ scrostati, la pianta di rose rustiche vicino al portone e il sedile di pietre del torrente che accostato al muro aspetta le chiacchiere che leniscono la noia  delle sere d’estate.
Il santuario-che-potrebbe-essere-dovunque ormai non si trova più da nessuna parte; le sue caratteristiche sono precise, ogni volta che siamo delusi dopo aver sperato di averlo ritrovato ci diciamo che sì, lo abbiamo visto tutti e due, non é una allucinazione quindi prima o poi lo ritroveremo.
Forse!
A volte, dopo l’ennesima rincorsa mi viene da pensare che il santuario esiste, ma come un topos, la quintessenza della chiesa di campagna che per una volta si é concretizzata in un qui e adesso che non é questo e che forse non é ripetibile.
Bisogna aspettare che una congiunzione astrale, un buco nero, una concentrazione di pietà popolare e di fede rustica la faccia di nuovo concretizzare con la sua collinetta, la scalinata, il frontone triangolare, lo stile incerto, il cemento scrostato e, soprattutto, la sua scritta dedicatoria:
“Al Beato X Y, sarto (o calzolaio )”. O forse barbiere

Strade per caso

Fra i pregi del viaggiare quello che mi pare assolutamente irrinunciabile, il senso stesso del viaggio, è la libertà di andare e non, di prendere un’altra strada, di attardarsi o di saltare la meta unanimemente celebrata.
Non prenotiamo, andiamo soli, così non dobbiamo fare niente per forza.
Di sicuro questo ci ha fatto perdere delle occasioni, ci ha fatto dormire in hotel non proprio eccellenti, ma so che abbiamo potuto vivere esperienze che per noi sono state molto significative e straordinarie in quanto inaspettate.
Una di queste situazioni  si é realizzata nel sud-ovest della Francia, durante un viaggio di trasferimento.
Ci fermiamo per una sosta  e vicino alla chiesa romanica di St. Just in Valcabrére : ci pare  l’ideale.
E’ bella, circondata da scavi di una necropoli romana, costruita con pietre di scavo..  commovente nella sua solitudine, fra i campi.

Mentre si mangia, seduti a un tavolino da pic-nic di cui la Francia é generosa, verso chi viaggia, ci cade lo sguardo su una specie di montagna di pietra, di guglie e pinnacoli alto su di un colle che pare fare tutt’uno con la costruzione: una specie di miraggio.
E’ bastato uno sguardo per esclamare: “stassera si dorme lì”viaggiare,libertà, caso,
E infatti abbiamo dormito nell’unico albergo, l’antica stazione di posta, ai piedi della scalinata di ingresso alla magnifica abbazia di St. Bertrand de Comminges.
La cattedrale é bella ma indimenticabile é il chiostro straordinario che  si affaccia sulla valle verdissima dove pascolano le mucche.viaggiare,libertà,caso
E per lasciarci ancora più indelebile il ricordo alla sera sul magnifico organo della chiesa ci sono le prove del concerto di musica antica.
Ci vestiamo bene e poi andiamo a sederci sulla gradinata fuori dal portone chiuso: suonano il concerto solo per noi  che ascoltiamo e intanto guardiamo la sera scendere sul paesino silenzioso e sulla valle dove adesso non passa  nessuno.

Invece in passato, secondo le testimonianze,  passavano tutti di qui:  gli uomini del paleolitico superiore che hanno lasciato la commovente e intrigante testimonianza delle mani con le dita “amputate” delle grotte di Gargas  Manos_de_Gargas_%28Francia%29.pnge poi  Pompeo che fonda una città Lugdunum Convenarum, tornando  vittorioso dalla Spagna, e poi Erode Antipa con la figliastra Salomé, esiliati qui da Caligola per aver fatto decapitare Giovanni il Battista, una città famosa, popolosa e ricca..
E poi arrivarono i Visigoti  e dopo i Merovingi e poi nell’alto Medio Evo cambia nome in St.Bertrand de Comminges e  passano di qui i pellegrini di uno dei diverticoli del Cammino di Santiago..

Poi è successo che di qui non é passato più quasi nessuno.
Noi invece, per caso, ci siamo passati. 

Io, Fellini e Rimini

Posso dire con tranquilla modestia che ho molte cose in comune con Fellini:  i ricordi d’infanzia.
Quando andai a vedere “8 e mezzo” e all’improvviso  il colore passò dal bianco e nero al color seppia, una bambina saltava sul lettone sussurrando ” asa – nisi – masa”, i personaggi si misero a parlare in romagnolo ( e mezza galleria del cinema marchigiano dove eravamo si girò verso di me chiedendomi cosa avessero detto) io ero annichilita: aveva filmato i miei ricordi, anche quelli che non sapevo di avere.
Ma non basta essere romagnoli per avere i ricordi in comune con Fellini: a dire la verità io  ho passato tutte le estati della mia infanzia sulla spiaggia di Rimini, e proprio nel quartiere di S. Giuliano a mare, che era il suo quartiere.

 Ogni estate scendevamo dalla montagna e andavamo dalla zia Bigia (non so bene come si chiamasse) che abitava a Rimini, nel quartiere di S.Giuliano, a nord del Porto canale, che era un quartiere povero, di pescatori. Aveva una casetta a un solo piano, circondata da un marciapiede di cemento, circondato a sua volta da una aiuola nella quale coltivava fiori e …pomodori.
Dava ombra a tutto un superbo fico, restato famoso perché essendo la zia un po’ economa (avara, insomma), quando si arrivava a trovarla l’unica offerta che immancabilmente faceva era: “vut un mataloun ?” che tradotto significa “Vuoi un matalone?” cioè il tipo dei fichi prodotti dall’albero di cui sopra.
Lì ho conosciuto i primi villeggianti milanesi  e  una spiaggia che ho poi rivisto nei film di Fellini, proprio uguale.
Alla mattina presto andavamo sulla spiaggia ancora deserta ad aiutare, si fa per dire, i pescatori che tiravano le reti a riva (la tratta) e in cambio del nostro aiuto (!)  davano a noi bambini il permesso di riempire di lattarini, i pescetti piccolissimi, i nostri secchielli.
Noi fratelli eravamo molto fieri di questo nostro lavoro perchè il guadagno  era il pesce preferito dalla mamma.
Lì ho conosciuto anche il primo cinema all’aperto, che era vicino a casa della zia Bigia; costeggiavamo il suo recinto di “canezza” (cannucciaia) per andare al mare.
A me mi facevano alzare presto alla mattina perché dovevo respirare l’aria jodata, che l’inverno era lungo e freddo su in montagna e io, dicevano i dottori, ero fragile (mamma mi raccontava come il suo dottore scuoteva spesso la testa mentre mi visitava a sottintendere che forse non ce l’avrei fatta).
Su quella spiaggia c’erano le tende che erano dei grandi rettangoli di tela a rigoni, ogni bagnino aveva i suoi colori.
 Queste tende, somigliantissime a vele latine, avevano, sui due lati corti, un bastone che le teneva tese ; uno dei due lati corti veniva agganciato ad un palo, come fosse la vela di una barca mentre l’altro lato veniva piantato a terra, tramite due pioli che si conficcavano nella sabbia.
Si aveva così un’ombra grande, ma che durante il giorno si assotigliava e allora il bagnino veniva a girare le tende, toglieva i pioli, faceva ruotare il telo e poi  li ripiantava .
Mi sembrava molto più bello che con gli ombrelloni di adesso, c’era più ombra, più fitta e poi …..quel cantuccio di ombra lì, fra il punto in cui la tenda toccava la sabbia e le sdraio, immancabilmente girate dall’altra parte, é stato per ore lunghissime e bellissime il regno  segreto di me bambina  piccola e gracile che non poteva allontanarsi, né stare troppo al sole
Ma lì si era al riparo anche dagli sguardi degli adulti e si poteva inventarsi tutto.RIMINI 3.jpg

Giardini d’estate

Giorni d’estate: nella cittadina sul mare adriatico dove mi capita di passare un po’ di tempo mi attirano le villette anni trenta con i loro giardini anni trenta.
Hanno tutte la stessa struttura, pur cercando di differenziarsi nel decò: pianta quadrata, due piani, scalinata pretenziosa centrale, balconate a colonnine  panciute di cemento, architravi decorati a motivi floreali, …
Ma oltre alle costruzioni, si  assomigliano anche i giardini.
E non sono solo le aiuole simmetriche, circondate da mattoncini o piastrelle ormai un po’ rotti, né la recinzione in po’ arrugginita e il cancello troppo piccolo per lasciar passare le auto.
Per datare queste case basta guardare le piante che vegetano in questi giardini:
intanto c’è una palma, bella alta e un po’ insensata, ormai spelacchiata (era forse un’allusione all’Africa coloniale?), di solito messa al centro;
poi ci sono delle piante di nespole giapponesi,dalle belle foglie scure e il frutto giallo sole, frutto allora esotico che oggi nessuno assaggia più e forse molti non sanno neppure che sia commestibile;
e ancora c’è:
un giuggiolo,
un lillà
una pianta di peonia (ce ne sono spesso di quelle rosso scuro, che invidia!),
piante di rose brutte e profumatissime,
bordure di garofanini bianchi e di begonie a grandi fiori, con le loro foglie simili al cavolo…
Ma nelle aiuole meno in vista e quelle dietro casa ecco le piante di pomodori, quelle di finocchietto selvatico, qualche pianta di cetriolo e di insalata, il prezzemolo, la salvia e il  rosmarino.
L’utile assieme al dilettevole, l’occhio e lo stomaco, il superfluo e il necessario.
Li ricordavo  così nella mia infanzia di vacanze riminesi, alla fine degli anni ’40, credevo fosse il frutto della miseria del dopoguerra e invece eccoli ancora lì, col loro profumo di passato.

Acqua e poesia a la Couvertoirade

acqua, templari, crociati,pellegrini,poesia, A.MachadoEcco un posto dove senza bisogno di referendum sapevano e sanno che l’acqua è un bene  e un diritto di tutti: La Couvertoirade, un borgo piccolissimo, nella  Francia del di dentro, quella non turistica, si incontrano solo francesi….chiuso nelle mura in mezzo alle foreste del Massiccio Centrale.
Ha una storia nobile:  fondata dai cavalieri templari nel medioevo era sul cammino dei crociati e poi dei pellegrini di Santiago.
Gli abitanti di questo paesino, per evitare i contagi che potevano verificarsi in quei tempi di pestilenze senza però venire meno al dovere di ospitalità verso  i viandanti, offrivano  l’acqua ai viandanti,  ma con una importante cautela.
Nelle mura ancora oggi intatte, c’é un pertugio che viene chiamato “il dono dell’acqua”: attraverso di esso gli abitanti offrivano l’acqua a chi passava di lì,  mantenendo ben serrate le porte della città.
Per ricordare questa tradizione  anche oggi in tutti i locali pubblici ci sono, ben in mostra, caraffe di acqua fresca e bicchieri a disposizione di chiunque ne desideri.
Altri tempi? Non proprio.. in questo posto ho ricevuto un dono che a me pare inestimabile:
Mentre ero in giro per il paese un signore, davanti alla sua casa, mentre mi offriva l’acqua, mi ha declamato:

”Caminante, son tus huellas
el camino, y nada màs;
caminante, no hay camino,
se hace camino al andar.
Al andar se hace camino,
y al volver la vista atràs
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar.
Caminante, no hay camino,
sino estelas en la mar.”
A.Machado  da Campos de Castilla

così traduce il poeta Francesco Scarabicchi
“Viandante, sono le tue orme
il cammino, e niente più;
viandante, non c’é cammino,
se non andando.
Andando é il cammino,
e a volgere la vista indietro
si scorge il sentiero che mai
si tornerà a percorrere.
Viandante, non c’è il cammino,
solo scie nel mare.”

Un dono prezioso:   mi ha fatto conoscere una poesia straordinaria e mi ha fatto provare l’esperienza di sentir declamare una poesia per me:
una cosa che  davvero capita di rado, anzi praticamente mai.

la sottile linea d’ombra

razzismo, sentimento nazionale, paesi baschi, Bayonne, condivisione, esclusione

Questo titolo  non mi fa venire in mente  Conrad come sarebbe doveroso, ma la città di Bayonne e mi ci vuole un po’ per spiegarmi
Si arriva a Bayonne un giorno per caso, ma per la città non era un giorno qualunque.
Appena usciti dal solito IBIS per una visita alla città cominciamo a incontrare tutta la gente vestita completamente di bianco con una fascia rossa in vita o fra i capelli e qualche tocco di verde…tutti, proprio tutti, i bambini nel passeggino, le signore anziane, …….tutti insomma proprio tutti
(A dire il vero una eccezione c’era, quattro o cinque  ragazzi e ragazze con anfibi, catene, capelli dritti…vestiti integralmente di nero: una vera trasgressione della quale si compiacevano) .
Eravamo capitati nel bel mezzo della festa basca
Ho pensato di aver ricevuto un dono dal cielo: la possibilità di vivere assieme alla gente una festa popolare antica e vera, non il folcklore,  non la commemorazione, ma la vera partecipazione popolare ad un rito collettivo..
Mi ha preso quasi una sbornia.
La gente pressata nelle stradine strette del centro saltava all’unisono danzando al canto di “Bayonne, Bayonne…”  rispondevano affacciati dalle finestre.. e io partecipavo..
ma G. ha smorzato il mio entusiasmo….
”E’ la loro festa, la loro, capisci?”
Io non capivo: cavolo, io partecipavo, potevo godere del privilegio di celebrare la festa di una terra e di un popolo, quello basco, così speciale….mi sentivo perfettamente in sintonia, entusiasta di poter esprimere la mia gioia di essere lì con loro.
Ma io non ero loro, vero!
E soprattutto  chi mi diceva che LORO erano contenti di accogliermi?
Che LORO mi permettevano di partecipare, che mi concedevano il beneficio di prendere parte a questo rito?
Vero: ogni volta che pronunciamo un noi distinguiamo noi da voi e da loro..
è proprio da quel senso di appartenenza, di unità, di condivisione della storia, della memoria, e della cultura che trae origine e forza l’identità nazionale, ma anche il razzismo:
NOI non  VOI  e anche  non  LORO
Insomma la  celebrazione  della comune matrice culturale è anche la radice del rifiuto  e dell’esclusione dell’altro… quanto esile la linea d’ombra che li divide,  quanto difficile fermarsi in tempo e distinguere.
Una volta raggiunta questa consapevolezza ho continuato a vivere l’esperienza con due cuori, come si dice in romagna: il desiderio di condividere un sentimento di comunione e un po’ di sospetto per il senso di esclusione implicito…
Roba da grandi acrobati camminare su questo filo sottile.

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