etimologie dialettali

In uno dei tanti posti della Romagna dove ho abitato da giovane per indicare i “gioielli maschili” dicevano, in dialetto, “i due di agosto”.
Siccome sono patologicamente curiosa ho cercato il perché e ho trovato questa che se non fosse vera è talmente godibile che dovrebbe essere vera.
Durante la dominazione napoleonica, quando la  Romagna faceva parte della Repubblica Cisalpina, i soldati napoleonici erano ovviamente molto osservati dalla popolazione e commentati con ironia e qualche sarcasmo.
Quando i soldati si schieravano la disciplina era rigidissima e la precisione dello schieramento era curata in modo maniacale.

cacciatori_guardia
Ma il tipo di uniformi in voga creavano qualche problema: i pantaloni erano così aderenti che… l’anatomia maschile risultava abbastanza evidente così pare che i comandanti per rimediare ordinassero
“Le deux a gauche”
cioè
I due a sinistra”
A questo ordine seguiva il “riordino” e finalmente lo schieramento era perfetto.
I romagnoli che guardavano trovarono, ovviamente, la cosa almeno buffa e cominciarono a chiamare la parte anatomica in oggetto così come la sentivano chiamare dai francesi, ma naturalmente  in dialetto
“Le deux à gauche”  diventò così “i déu d’agost”  che significa “i due di agosto”…

Io, Fellini e Rimini

Posso dire con tranquilla modestia che ho molte cose in comune con Fellini:  i ricordi d’infanzia.
Quando andai a vedere “8 e mezzo” e all’improvviso  il colore passò dal bianco e nero al color seppia, una bambina saltava sul lettone sussurrando ” asa – nisi – masa”, i personaggi si misero a parlare in romagnolo ( e mezza galleria del cinema marchigiano dove eravamo si girò verso di me chiedendomi cosa avessero detto) io ero annichilita: aveva filmato i miei ricordi, anche quelli che non sapevo di avere.
Ma non basta essere romagnoli per avere i ricordi in comune con Fellini: a dire la verità io  ho passato tutte le estati della mia infanzia sulla spiaggia di Rimini, e proprio nel quartiere di S. Giuliano a mare, che era il suo quartiere.

 Ogni estate scendevamo dalla montagna e andavamo dalla zia Bigia (non so bene come si chiamasse) che abitava a Rimini, nel quartiere di S.Giuliano, a nord del Porto canale, che era un quartiere povero, di pescatori. Aveva una casetta a un solo piano, circondata da un marciapiede di cemento, circondato a sua volta da una aiuola nella quale coltivava fiori e …pomodori.
Dava ombra a tutto un superbo fico, restato famoso perché essendo la zia un po’ economa (avara, insomma), quando si arrivava a trovarla l’unica offerta che immancabilmente faceva era: “vut un mataloun ?” che tradotto significa “Vuoi un matalone?” cioè il tipo dei fichi prodotti dall’albero di cui sopra.
Lì ho conosciuto i primi villeggianti milanesi  e  una spiaggia che ho poi rivisto nei film di Fellini, proprio uguale.
Alla mattina presto andavamo sulla spiaggia ancora deserta ad aiutare, si fa per dire, i pescatori che tiravano le reti a riva (la tratta) e in cambio del nostro aiuto (!)  davano a noi bambini il permesso di riempire di lattarini, i pescetti piccolissimi, i nostri secchielli.
Noi fratelli eravamo molto fieri di questo nostro lavoro perchè il guadagno  era il pesce preferito dalla mamma.
Lì ho conosciuto anche il primo cinema all’aperto, che era vicino a casa della zia Bigia; costeggiavamo il suo recinto di “canezza” (cannucciaia) per andare al mare.
A me mi facevano alzare presto alla mattina perché dovevo respirare l’aria jodata, che l’inverno era lungo e freddo su in montagna e io, dicevano i dottori, ero fragile (mamma mi raccontava come il suo dottore scuoteva spesso la testa mentre mi visitava a sottintendere che forse non ce l’avrei fatta).
Su quella spiaggia c’erano le tende che erano dei grandi rettangoli di tela a rigoni, ogni bagnino aveva i suoi colori.
 Queste tende, somigliantissime a vele latine, avevano, sui due lati corti, un bastone che le teneva tese ; uno dei due lati corti veniva agganciato ad un palo, come fosse la vela di una barca mentre l’altro lato veniva piantato a terra, tramite due pioli che si conficcavano nella sabbia.
Si aveva così un’ombra grande, ma che durante il giorno si assotigliava e allora il bagnino veniva a girare le tende, toglieva i pioli, faceva ruotare il telo e poi  li ripiantava .
Mi sembrava molto più bello che con gli ombrelloni di adesso, c’era più ombra, più fitta e poi …..quel cantuccio di ombra lì, fra il punto in cui la tenda toccava la sabbia e le sdraio, immancabilmente girate dall’altra parte, é stato per ore lunghissime e bellissime il regno  segreto di me bambina  piccola e gracile che non poteva allontanarsi, né stare troppo al sole
Ma lì si era al riparo anche dagli sguardi degli adulti e si poteva inventarsi tutto.RIMINI 3.jpg

Cantare piano

Sono uno di quelli ai quali, quando da piccoli cantavano a squarciagola nel coro della scuola, la maestra ha detto: ” te canta piano,  per favore”.
E sono anche uno di quelli che ci hanno messo un po’ per capire che questo non succedeva perchè la maestra preferiva i toni sfumati, ma perché noi…. eravamo stonati!
A me questa scoperta mi ha fatto stare molto male anche per motivi di famiglia.

Sono di famiglia romagnola, il mio zio sapeva quasi una romanza o un brano d’opera per ogni parola del vocabolario.
Se ti capitava di dire, che so,  “sospiri” lui attaccava Verranno a te sull’aere i miei sospiiiiri ardeeenti…
o magari capitava un “mare” e lui di Provenza il mare e il suol  chi dal cor ti cancellòchi dal cor ti cancellò di Provenza il maaareeilsuool…
Aveva un repertorio vastissimo e non si preoccupava se il brano era per contralto, soprano o baritono o tenore o coro:  lui sapeva le parole e la musica e cantava, cantava.
Io invece non dovevo cantare forte, non mi potevo sfogare a fare i gorgheggi, allora  mi mettevo davanti allo specchio e dirigevo l’orchestra nelle ouvertures delle opere, la gazza di Rossini, molto Beethoven…  ho diretto Pollini nei notturni di Chopin e anche quelli di Fields.. ma cantare no, non dovevo.

Un poeta romagnolo mi ha letto nel cuore quando ha scritto (e la poesia bisogna scriverla come é scritta, poi magari testo a fronte..)

Me sin da burdèll
“sta zett ‘ci stuned
e lou  intent i canteva….
….
Adess ch’am so fatt vècc,
ch’um m’ariporta a chent e a chent..
“Sa chental che pataca c’un sa fè?”
E i ne sa che dreinta asò un viuléin

Nino Pedretti AL VOUSI  Ed.IL GIRASOLE

Io fin da bambino
“sta zitto che sei stonato
e loro intanto cantavano…
……
Adesso che mi son fatto vecchio
e non mi importa canto e canto
“Cosa canta quello sciocco che non sa fare?
E non sanno che dentro di me sono un violino…

E’ proprio vero, mi succedeva così. Dentro di me sapevo benissimo come faceva  il disegno di quella musica… ma se provavo ad alzare il volume… Insomma forse la mia maestra tutti i torti poi non ce li aveva.

Sono diventata grande e ho lavorato a lungo in una associazione, il C.e.m.e.a., per la formazione degli educatori che considera il cantare in coro un elemento fondamentale del suo metodo educativo, importante  sia per la formazione individuale che nella vita dei gruppi.
I canti vengono insegnati con calma, sottovoce, senza darsi arie da esperti musicofili: chi canta è molto più importante di come canta e anche di cosa canta, tuttavia sempre nel  rispetto dei brani musicali.
Solo che chi insegna ha pazienza e garbo. Nessuno mi ha mai detto di cantare piano…. tutti lì cantano senza sovrastare le voci degli altri.

Da signora ormai matura mi hanno chiesto di far parte di un coro parrocchiale che aveva lo scopo di arricchire le celebrazioni liturgiche.
La compagnia era buona, l’insegnante capace e disponibile a far cantare tutti, come erano erano,  senza scegliere fra intonati e no…
Un gran coraggio!
Ma si cantavano musiche di pregio, a più voci, eleganti e spesso inconsuete, molta musica antica, anche medioevale, gregoriano….
E proprio nel cantare uno di questi pezzi mi è capitata una delle esperienze più emozionanti della mia vita musicale e forse anche di più.

Avevamo imparato le diverse voci  di un canto polifonico in momenti separati e quando per la prima volta abbiamo cantato assieme io ho sentito una sensazione fisica fortissima e difficile da descrivere… la pelle di tutto il corpo attraversata dalle vibrazioni, come se mi passassero su tutta la pelle una piuma più o meno forte a secondo che le voci che si intersecavano fossero tre o cinque…
Una sensazione  (non una emozione, proprio una sensazione) così forte, così bella e così nuova che ho smesso di cantare e ho sbarrato gli occhi.
La maestra se ne è accorta e mi ha chiesto cosa succedeva, io ho detto che sentivo uno strano “solletico” e lei imperturbabile:
“Ah! tu sei uno di quelli che riesce a sentire le terze e le quinte con la pelle!….. “
Facce interdette dei compagni del coro, anche qualche sorrisetto incredulo. Invidiosi!

Ho imparato a dissimulare la sensazione che ogni volta arrivava, durante alcuni passaggi del canto, quando fra le note cantate da ogni sezione del coro c’era quella certa distanza, mi dicono.
Una sensazione di grandissimo piacere, ma anche fonte di orgoglio: io sono una  speciale, che della musica riesce a sentire qualcosa che non tutti riescono a sentire…. e non solo con le orecchie.

Dall’essere stonati si può passare a sentire le “quinte”… bisogna trovare insegnanti che invece di dirti di cantare piano ti insegnano piano piano a cantare.

Progetta un sito come questo con WordPress.com
Comincia ora