il capo, il ragioniere, la segretaria

ricordi delle prime esperienze di lavoro: il mobbing è sempre esistito anche se allora non si chiamava così

imagesAppena diplomata, nell’attesa che venisse bandito il  Concorso magistrale, ho fatto la segretaria in una piccola industria un po’ speciale.

La gente la chiamava “la fabbrica della puzza” e di puzza ne faceva davvero dato che lavorava gli scarti della macellazione.  In pratica lavorava materiale da discarica che invece dava lavoro e reddito a un sacco di gente.

In pratica ho scoperto lì che da tutto ciò che del bestiame macellato non è adatto all’alimentazione umana come pelle, ossa, corna,  ritagli vari, si ricavano prodotti utilissimi e anche di notevole valore economico.

Attraverso procedimenti fisici e chimici da quella che pare immondizia putrescente si ricavava,  con successive lavorazioni, prima del grasso, poi un tipo di colla estremamente pregiata, quindi farine per mangimi e, in ultimo, un raffinatissimo concime per piante speciali come le orchidee!  In pratica tutto veniva riutilizzato. 

Avevo una quantità di mansioni come andare ogni mattina a raccogliere dagli operai le dichiarazioni delle ore prestate il giorno prima, battere a macchina le lettere abbozzate dal “Ragioniere” e spesso dovevo correggerle di nascosto perché non era proprio una cima in italiano (e anche in altre cose…).

Erano appena iniziati gli anni ’60 e la fabbrica era in campagna così io dovevo occuparmi del telefono che ancora non era automatico. 

C’era una lunga liturgia per fare una telefonata: io chiamavo il centralino di Jesi, la centralinista (dopo aver finito di raccontare i fatti suoi alla vicina) mi chiedeva chi volevo contattare, poi lo chiamava e quando rispondeva me lo passava: potete immaginare quanto la faccenda fosse complicata e noiosa.

centralinistiMa per me, appena uscita dal collegio, tutto era interessante e nuovo e cercavo di capire come funzionava ogni aspetto della fabbrica e dell’ufficio e in questo ero favorita da tanti del personale che mi trattavano con gentilezza dato che ero proprio una ragazzina che forse in un ambiente così completamente maschile, faceva loro tenerezza.

Il capo, il Padrone, era davvero uno che si era fatto da sé; aveva forse la licenza elementare, ma una grande intelligenza e una capacità di immaginazione straordinaria. Pare avesse visto in Germania la trasformazione dei rifiuti di macellazione in “ricchezza” e aveva azzardato questa impresa. 

Dinamico, decisionista, gran lavoratore. Mi trattava con educazione ma in fondo io ero l’ultima arrivata, una ragazzina e avevo poche occasioni di entrare in contatto con lui direttamente;  capitava di solito attraverso il “ragioniere”.

Questo “ragioniere” era un tipo infido, bassetto di statura, pedante, supponente, frustratissimo dal ruolo che doveva svolgere agli ordini di una personalità vivace e brillante come quella del Capo e cercava di rifarsi su di me.

Capitò che in una lettera di cui mi aveva passato la minuta aveva fatto confusione fra questo-codesto-quello e aveva usato a sproposito “codesto” che secondo lui era una specie di forma elegante e obsoleta per dire “questo”. 

Cercai di fargli notare che scrivendo come diceva lui in pratica chiedevamo al cliente una cosa sbagliata.

Piccato e con aria autoritaria mi disse di scrivere quello che diceva lui aggiungendo uno “scema” per buona misura.

Feci come ordinava ma conservai la minuta.

Dopo qualche giorno il cliente rispose dichiarando che  non era stato in grado di capire il senso della nostra lettera.

Dall’Ufficio del Capo si levò un ruggito, il “ragioniere” accorse, si affannò a dire “Chissà cosa avrà scritto quella…”. Il Capo mi chiamò e io mi presentai con la minuta incriminata e raccontai come avevo cercato di rimediare, purtroppo inascoltata.

Restò di ghiaccio poi, a voce alta, che si sentisse bene anche nell’ufficio contiguo “del ragioniere”, mi disse che io ero la SUA segretaria e da allora in poi avrei dovuto accettare soltanto gli ordini che venivano direttamente da lui. E che per favore, uscendo, passassi dal “ragioniere” e gli dicessi di andare immediatamente dal Capo. Veramente mi pare di ricordare un “dica a quel testa di c…”

Non c’era bisogno che passassi a dirlo dato che le pareti erano sottilissime e la voce arrabbiata del capo riempiva ampiamente tutta la piccola costruzione, ma naturalmente andai a fare l’ambasciata e, lo ammetto, con una certa soddisfazione…

a Forlì la mia scuola per diventare maestra

a Forlì negli anni ’50 una scuola per preparare all’insegnamento che prendeva molto sul serio la sua funzione

liceo-morgagni La scuola dove mi hanno insegnato ad insegnare: l’Istituto Magistrale Marzia degli Ordelaffi di Forlì.

Diventare maestra mi piaceva fin da piccola e comunque data la situazione economica della mia famiglia non avrei potuto fare altro. Allora, negli anni ’50 del secolo scorso (!!), l’istituto magistrale era una scelta quasi obbligata soprattutto per le ragazze che non avevano mezzi finanziari e non volevano scegliere un mestiere.

Quello che ho scoperto dopo è che quello dove mi iscrissero era fra tutti un istituto magistrale speciale, fra i  più “blasonati”.

Per ogni attività c’erano aule e attrezzature specifiche molto probabilmente anche grazie al fatto che la scuola era ospitata in quella che fino alla caduta del fascismo, in fondo pochi anni prima, aveva ospitato l’Accademia dell’Areonautica

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Ogni mattina cambiavamo aula almeno una volta: da quella di musica e canto corale,  con sgabelli e senza banchi a quella di disegno, enorme, con una parete tutta di vetro e le altre tre fasciate di lavagne sulle quali a turno imparavamo a disegnare con i gessetti colorati per illustrare gli argomenti delle lezioni; intanto un’altra parte della classe su enormi tavoli inclinabili disegnava su carta.

Poi c’erano i laboratori di scienze naturali: botanica e zoologia con le raccolte sotto vetro e i microscopi dove ho passato parecchio tempo a osservare il contenuto delle gocce di acqua di una pozzanghera, a scrutare i movimenti delle cellule che si sdoppiavano.

E il laboratorio di fisica pieno di aggeggi dall’aria misteriosa di cui ci affascinava il funzionamento. Ricordo un episodio che avrebbe potuto trasformarsi in un dramma.

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Il professore di fisica ci aveva illustrato nella lezione precedente il funzionamento della macchina elettrostatica di Wimshurst, inventata nel 1883 che ruotando riusciva a produrre cariche elettriche anche piuttosto notevoli, producendo poi piccoli fulmini.

Io avevo capito la lezione e la stavo illustrando ai compagni facendola ruotare più e più volte. Entrò il professore che mi ordinò seccamente di immobilizzarmi e di stare attenta a non toccare in nessun modo l’apparecchio. Mi allontanò e poi… fece scaricare la tensione con uno spettacolare lampo e strepito… Avrei potuto non essere qui. Molto molto interessante!

E c’era anche l’aula di chimica dove era inevitabile sentirsi un po’ alchimisti e fare combinazioni spesso innocue, a volte molto sorprendenti, qualche volta con un filo di rischio.

Ovviamente, data l’origine dell’edificio, per le attività motorie c’era più di una palestra e tutte ampie e attrezzatissime; la ginnastica era molto importante e ne studiavamo anche la didattica. Avevamo una scuola elementare molto vicina dove andavamo a fare tirocinio insomma a provare a fare gli insegnanti dal vero.

Ricordo un episodio buffo: avevamo avvertito l’insegnante della classe che seguivamo che avremmo dedicato la lezione all’insegnamento della marcia, dei cambi di direzione, della corsa… (In fondo le parate erano ancora lì, dietro l’angolo e la nostra insegnante ne aveva organizzate)

Al nostro arrivo trovammo che alla classe che avevamo scelto se ne erano aggiunte altre, le insegnanti evidentemente approfittavano volentieri della situazione, così per guidare l’attività venni scelta io che avevo, pare, una voce e un piglio adatto per cui mi trovai a fare muovere in complicati intrecci un centinaio di bambini, che ricordo contentissimi e molto collaborativi, nel cortile della scuola.

Quando feci notare alla mia prof che avevo bisogno del cambio dato che avevo la gola indolenzita lei  mi allungò una caramella!   Il risultato fu un ottimo voto in pagella anche se nell’attività fisica ero proprio una schiappa, non ero capace di saltare nemmeno 50 cm.

Quando ho cominciato a insegnare e quindi a frequentare tanti maestri, diplomati come me, sono rimasta sorpresa nello scoprire che non avevano mai frequentato un laboratorio e  molti credevano che nel loro istituto nemmeno ce ne fossero…

Insomma in quella scuola avevano un’idea dell’insegnamento  all’insegnamento (!!?) molto moderna, cercavano di insegnare a noi con il metodo attivo e concreto col quale poi noi avremmo dovuto lavorare con i bambini.

Ma la frequenza dell’uso dei laboratori non era l’unica “diversità” di quella scuola.  Fra le materie di studio curriculari noi, credo unici o quasi in Italia, avevamo anche AGRARIA!

Può sembrare bizzarro, ma quando ne chiesi ragione mi spiegarono che la maggior parte di noi avrebbero cominciato la carriera in piccole scuole in campagna o in montagna (cosa che poi si verificò realmente, come ho raccontato) e dunque una forma di alfabetizzazione generale sul mondo dell’agricoltura ci avrebbe aiutato a entrare meglio in sintonia con l’ambiente dei nostri futuri alunni.

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Di certo qualcuna di quelle nozioni mi è servita e mi ha aiutato a capire, soprattutto, come il lavoro dei contadini agisce sull’ambiente e il paesaggio.

Mi colpivano le parole, il lessico specifico, abbastanza curioso perché poco usato, come “girapoggio” o “cavalcapoggio” parole che descrivono il modo di orientare le piantagioni sulla collina…

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una gariga di piante di euforbia in Argolide. Grecia

Un vocabolo che ho sempre ricordato e solo dopo un viaggio nell’interno della Grecia sono riuscita ad usare con grande soddisfazione è GARIGA, che sarebbe questo paesaggio qui. Sono soddisfazioni!

E ancora per chi voleva c’era la possibilità di imparare a suonare uno strumento, a scelta, fra pianoforte e violino. Non ne avevo intenzione, ma accadde che…

Alla conquista della scuola elementare

il ricordo di un gruppo di ragazzi alle prime armi che insieme cominciarono la carriera di maestro nelle nostre scomode sedi di montagna

la stazione di Serra come era

Oggi, in una passeggiata “vicino casa” siamo passati a Trivio, Forchiusa, Cerqueto, Pierosara, Stazione di  Serra S.Quirico.  In ognuno di questi posti una scuola e il ricordo dei colleghi con i quali, nell’autunno del 1964, freschi della vittoria al Concorso magistrale, andammo all’assalto della scuola elementare italiana… 

Non ci conoscevamo prima di incontrarci nella Direzione Didattica di Serra S.Quirico per presentarci al Direttore, ma subito cominciammo a socializzare perché eravamo tutti novellini, inesperti, entusiasti e anche tutti con la sede lontana da casa e quindi costretti ad essere compagni di viaggio.

Io ero quella più comoda, da Jesi arrivavo a Stazione di Serra S.Quirico dove insegnavo a una classe normale con solo 12 alunni.  Da Jesi anche veniva Dario ma doveva raggiungere in modo complicato la sede più scomoda e lontana: Cerqueto di Genga. Presto si arrese a viaggiare con la sua Fiat Topolino della quale ogni tanto approfittavo anche io.

Poi da Chiaravalle Rossana per Forchiusa, Maria Pia da Falconara Marittima a Trivio e infine quello che faceva più chilometri: Umberto che da Ancona doveva arrivare a Pierosara.

Umberto ovviamente partiva per primo e si installava in uno scompartimento vuoto e ad ogni fermata si affacciava per indicare dove aveva “riservato” i posti per il gruppo. Uno alla volta salivamo tutti, io per ultima e poi, a Serra S.Quirico scendevamo noi tre donne. Rossana e M.Pia salivano sul taxi che le portava a destinazione nelle loro scuolette isolate. Rossana da sola in una pluriclasse unica: pochi bambini ma di tutte le classi, M.Pia  a Trivio aveva una collega del posto; una di loro insegnava a bambini di due classi diverse e l’altra le altre tre classi.

la scuola di Trivio, ancora bella, ma abbandonata
la scuola di Trivio, ancora bella, ma abbandonata

Io ero l’unica che aveva alunni tutti della stessa classe, un lusso!

la mia prima classe a Serra
davanti alla scuola di Borgo Stazione di Serra S.Quirico: io, la maestra nuova, e i “miei” primi alunni

Umberto proseguiva il suo viaggio, scendeva alla stazione successiva, quella di Genga S.Vittore, divenuta oggi famosissima ma allora ancora le magnifiche grotte di Frasassi splendevano nel silenzio dell’abisso, restando ignote ancora per anni. 

Un tassista locale lo accompagnava a Pierosara, il paesino arroccato lì sopra. La sua scuola, pluriclasse unica, un pugno di bambini privi di tutto, era alloggiata in una stanza sopra una stalla, entrambe poco stabili tanto che un giorno un mattone del pavimento sprofondò sotto il suo piede per fortuna senza conseguenze. 

questa casa di Pierosara mi pare proprio quella dove c'era la scuola di Umberto e se non lo è ci assomiglia davvero molto
questa casa di Pierosara mi pare proprio quella dove c’era la scuola di Umberto e se non lo è le assomiglia davvero molto.

Per la caratteristica del luogo, difficile da raggiungere, la scuola di Pierosara era classificata “Scuola di montagna” che significava che il maestro titolare era tenuto a risiedere in loco.

Per compensare il disagio ogni anno comportava un punteggio doppio per la carriera e il trasferimento.  Umberto era un ragazzo di buona famiglia, molto raffinato ed elegante, non si sognava proprio di risiedere lassù dove, accanto all’aula, l’amministrazione scolastica gli aveva riservato una stanzetta davvero spartana. 

Umberto aveva allestito una specie di teatrino: un letto leggermente sfatto, compreso di ciabatte, un tavolino con qualche stoviglia, un fornelletto a gas…   Per un eremita sarebbe andata quasi bene, ma Umberto tornava ogni giorno a casa con noi.

Per la Legge i nuovi insegnanti dovevano ricevere l’ispezione da parte dell’Ispettore ministeriale che avrebbe poi attribuito un giudizio che, se positivo, abilitava all’insegnamento in modo definitivo  mentre in caso contrario la prova sarebbe slittata all’anno successivo, con la minaccia del licenziamento.

Arrivò l’ispettore, vide il tutto, chiese a Umberto:  “Ma lei, maestro, risiede?” e Umberto, una splendida faccia di bronzo, modi signorili e una notevole parlantina rispose:

“Ispettore, lei mi insegna che la Legge ha un corpo e uno spirito…”

Umberto superò la prova con un giudizio lusinghiero e l’espressione

“la Legge ha un corpo e uno spirito” divenne il nostro motto.

Il treno che ci avrebbe riportati tutti a casa passava verso le 14 e noi che uscivamo da scuola intorno alle 12,30 sostavamo nella sala d’aspetto della stazione fra chiacchiere, aneddoti delle classi, risate, discussioni metodologiche anche serie… A volte, specie d’inverno, andavamo nella trattoria vicino alla stazione, trattoria da camionisti, cibo robusto, sano, semplice e saporito e anche lì chiacchiere a stufo, anche serie, ma tante tante risate.

la stazione di SerraS.Quirico oggi
la stazione di Serra S.Quirico oggi, con un a decorazione che a me pare bella

Due anni di vita creano affiatamento e ricordi, ma dopo che tutti avemmo superato la prova ispettiva ci vennero assegnate le sedi e il gruppo si sciolse: io ancora più lontano, a Monterosso (come ho raccontato qui e qui).

Per qualche anno ci siamo frequentati saltuariamente, abbiamo partecipato ai matrimoni e ai battesimi… poi anche i ricordi si sono sbiaditi fino a oggi quando per caso ho fatto il tour e tutto è tornato vivo.

la sala d'aspetto oggi: il murale è nuovo, la panchina mi pare la stessa di allora
la sala d’aspetto oggi: il murale è nuovo, la panchina mi pare la stessa di allora (devo la foto a S.Paolinelli che ringrazio)

una storia vera come una favola

una situazione catastrofica, vera, che con l’aiuto di presenze benefiche e casuali si è trasformata in una specie di fiaba, vera anche questa

Schermata 2022-03-21 alle 18.44.50Una storia vera che il caso e alcune persone, nella parte degli aiutanti magici, hanno trasformato in una specie di favola.

R. era una ragazza di poco più di venti anni quando, mentre era sola, cadde rovinosamente dalle scale ripide e tortuose che andavano in garage.
Quando la trovarono fu portata al vicino pronto soccorso dove un medico appena la vide capì che era un caso difficile e raccomandò la madre di R di portarla immediatamente a Bologna, al Rizzoli, l’unico posto dove avrebbero saputo bene cosa fare.
La mamma di R accolse il suggerimento e partirono assieme a sirena spiegata verso Bologna, un paio di centinaia di chilometri più a nord.
Al Rizzoli erano attese e all’arrivo un gruppo di infermieri e portantini si fecero attorno e la trasferirono R all’interno.

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Fra questi infermieri uno, Aldo, lo ritroveremo in seguito, con un ruolo importante nella storia.
Dai primi esami emerse un quantità incredibile di fratture agli arti e, pericolosissima, una alla colonna vertebrale.
La mamma di R era lì, al suo fianco, sconvolta dal dolore e dalla preoccupazione, cercando di capire cosa si poteva e doveva fare; un paio di giorni dopo il ricovero fu informata che R sarebbe stata spostata nel reparto del Prof X.
La cosa non le piaceva, voleva sapere il motivo, stava per opporsi quando una infermiera anziana, che aveva l’aria di averne viste tante, la prese per un braccio e all’orecchio le disse:
“Non si lamenti, signora, che è la sua fortuna!”.
La mamma di R accolse il suggerimento, non fece nessuna opposizione e R fu spostata di reparto.
Era accaduto che il primario del reparto dove R era stata ricoverata all’inizio, pur fra la quantità delle fratture agli arti e ai piedi aveva deciso che la priorità era la situazione delle vertebre che facevano temere anche la possibilità tremenda di un grave rischio di paralisi. Così aveva chiesto il parere del neurochirurgo X specialista per la colonna vertebrale e questi aveva chiesto di potersene occupare.
Come diceva l’infermiera anziana esperta era una fortuna che R passasse nelle mani abili di X.

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R fu operata… l’operazione riuscì, poi anche le diverse fratture vennero ricomposte e saldate, la riabilitazione fu lunga mesi, vissuta nella clinica specializzata del Rizzoli a Montecatone…
La mamma di R non tornò a casa mai, per mesi, rimase sempre accanto a R, facendo amicizia con altri degenti e i loro familiari, cercando di rendersi utile aiutando quanti e come poteva ed era molto.
Aveva promesso a se stessa, a R (e credo anche a Dio) che sarebbe tornata a casa solo con R in piedi!
E infatti R tornò a casa, camminando con grande circospezione con le stampelle, ma camminando!
Quando dopo mesi la mamma di R incontrò il prof X gli prese le mani e gliele baciò, dichiarando che “quelle mani sante” erano da venerare.
Lui naturalmente si schernì.
La mamma andò anche a ringraziare quel medico che anziché ricoverare R aveva spinto la mamma a partire subito per Bologna: gli interventi dei consiglieri magici vanno rispettati.
R ha continuato a camminare, senza più stampelle, con i suoi piedi deformati dalle saldature delle ossa che avevano trovato una soluzione poco canonica.
Non erano belli, anzi… e per di più non si riuscivano a trovare scarpe con un aspetto appena un po’ femminili che riuscissero a contenerli quei piedi.
R e la sua mamma partirono così verso una grande città del nord dove lavorava una équipe famosa per la chirurgia del piede.
I piedi di R furono fotografati, scannerizzati, indagati con tutte le tecniche. Fu chiesto a R di camminare davanti agli esperti che filmavano ogni particolare. Dopo qualche giorno di attesa il responso fu sorprendente.
I vari specialisti che avevano studiato quei piedi non riuscivano a capire come facesse R a camminare con molta sicurezza e senza provare dolore; non solo non si sarebbero mai azzardati a toccare quel misterioso equilibrio che si era venuto a creare, ma chiesero di poter avere qualche giorno ancora di tempo per continuare a studiare il caso e potersene servire a scopo didattico.
E l’infermiere Aldo? Aveva aiutato a portare dentro il pronto soccorso la barella di R…
Cosa aveva visto?
Solo il viso: R era una ragazza giovane, non bellissima, ma con un viso dolce e i capelli lunghi. Era senza conoscenza, per di più sconvolta dai traumi subiti e dal viaggio.
Che cosa ha visto Aldo?
Ha visto, raccontava, l’amore della sua vita.
Aldo era un ragazzo trentenne, emigrato a Bologna per specializzarsi nella sua professione di infermiere presso un Ospedale famoso come il Rizzoli. Un ragazzo piacevole di aspetto, l’aria dolce e timida, nativo di un paesino marchigiano poco distante da quello di R.
Passava spesso a trovare R e la sua mamma finché restarono al Rizzoli, poi una volta trasferite a Montecatone nel suo giorno libero andava a trovare R portando fiori, piccoli doni, dolci…
Per R diventò una presenza desiderata e attesa…
Sono sposati da circa trent’ anni.
Conosco davvero i protagonisti di questa storia vera ma ogni tanto quando la penso mi pare potrebbe anche essere una favola della quale ci sono tutti gli ingredienti.

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le foto sono prese dal web, che ringrazio

per non dimenticare: Forlì 1959

Il tentativo di coprire gli orrori del nazismo e del fascismo cominciò molto presto… nel 1959 un’esperienza educativa di recupero della tragica memoria per non dimenticare

Forlì, 1959. Una cittadina in cui i segni del fascismo appena caduto sono ancora molto presenti e numerosi dato che “lui” era di qui. Noi andiamo a scuola in un edificio fascista, che è stato accademia aeronautica

Italy, Forli

 e l’enfasi e la prosopopea mussoliniana sono ovunque; i muri dei locali dove studiamo, quelli delle scale e dei corridoi sono ricoperti di mosaici bianchi e neri che ripetono ossessivamente gli slogan e le parole d’ordine della propaganda mussoliniana:

da “vincerevincerevincere” a “non più alto non più forte è la bestemmia a dio e all’uomo più oltraggiosa” ma noi non ci facciamo caso, è come se non significassero niente:  archeologia.

In questo clima di “oblio” capita una cosa strana: in città compaiono svastiche sui muri; grande scandalo sui giornali, polemiche in città. 
Nel mio collegio praticamente nessuno sa cosa significhi quello che sta accadendo: eppure sono passati così pochi anni…

La mia compagna di studio, liceale, fa del sarcasmo sul perché di tutto questo rumore “in fondo per un disegno!”

Non sa cosa significhi e nemmeno come sia fatta allora glielo spiego, disegnando sul margine della pagina del testo di storia della filosofia, l’Abbagnano sul quale sto studiando, la svastica della quale si discute.
Il giorno dopo, in classe,  Istituto magistrale, 3° anno, il professore di filosofia si fa prestare, come succede spesso dato che sto al primo banco e sono una sua affezionata, il mio testo.

Dopo averlo aperto sbianca… mi chiede ragione del disegno di svastica che è ancora lì, che ho dimenticato di cancellare. Racconto come è stato.
 Allora si rivolge alla classe e chiede se tutti nella stessa situazione sarebbero stati in grado di spiegare il significato e la gravità della comparsa delle svastiche sui muri. 
Quasi nessuno ne sa niente! Allora il professore  ci propone di dedicare parte delle nostre lezioni settimanali alla lettura di un testo che ci faccia capire che cosa sono stati il nazismo e il fascismo e cosa i campi di sterminio.

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Comincia così una serie di lezioni durante le quali si legge, di seguito, il libro di Piero Caleffi.  E’ il diario dell’esperienza vissuta da Caleffi nel campo di concentramento attraverso tutto l’orrore fino alla liberazione. 
Al sopraggiungere degli alleati Caleffi fugge per correre nel prato di là del recinto che tanto a lungo ha guardato sognando la libertà . Io ero il lettore ad alta voce: ricordo che qualche volta ho faticato a proseguire, con la voce rotta dall’emozione.
Il professore ci aveva spiegato che aveva scelto quel libro perché, nonostante l’esperienza terribile fosse stata vissuta direttamente dall’autore, questi aveva saputo raccontarla senza una sola parola di odio e di vendetta.

Era vero, non c’era una sola parola di odio, bastavano i fatti raccontati con lucidità, a condannare e a insegnarci cosa pensare di quei fatti e cosa pensare di quei “disegni“ apparsi sui muri della nostra città.

Non mi ricordoIcaro pulito che ci siano state grosse discussioni sul testo: bastava da sé. A margine: questo avveniva in un istituto magistrale statale tradizionale, un po’ bigotto,  in un tempo in cui  veniva controllato (e nel caso censurato) l’abbigliamento delle alunne e praticamente proibito il rossetto, ma c’era posto per insegnanti seri, coraggiosi e intraprendenti.

A margine ancora: non so come ho saputo  che anche lui aveva avuto esperienza del fascismo e delle persecuzioni… veniva a scuola con l’Avanti che sporgeva  dalla tasca e questo era a quel tempo un comportamento non solo fuori dagli schemi, ma anche coraggioso e non immune da rischi.

quando inventammo l’albero di Natale

il primissimo “albero di Natale” del dopoguerra

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Era forse il 1945, a S.Agata Feltria, sull’Appennino marchigiano, luogo che ospita i miei primi ricordi e in fondo un po’ tutta la mia infanzia, luogo dove eravamo arrivati finalmente trovando rifugio dopo le violenze della linea gotica da cui veniva la mia famiglia.

Era il primo Natale più tranquillo anche se ancora molto povero e fu così che il mio babbo allestì il primo albero di Natale della nostra famiglia, che fu anche  a dire la verità  il primo in assoluto per tutto il paese

Succedeva perché il mio babbo era nato nel 1915 a Boston, Massachusetts, da genitori che erano immigrati negli Stati Uniti ed erano poi rientrati in Italia quando il mio babbo aveva una decina d’anni dunque al mio babbo le feste di Natale ricordavano l’albero decorato della tradizione nordica come lo aveva vissuto in quell’altra vita, nella sua infanzia americana.

Così in casa nostra arrivò un ramo di abete, nemmeno tanto grande, al quale vennero appesi dei meravigliosi mandarini! Meravigliosi certo perché erano frutti esotici, venivano dall’estremo sud dell’Italia con mezzi di trasporto di fortuna, che ricominciavano a viaggiare. Ed erano dolci e succosi, un sapore delizioso.

Facevano una gran figura, così lucidi e colorati, ma non erano l’unica decorazione del nostro “ramo di Natale”.

In quei tempi così spartani quando capitava di ricevere una caramella o un dolcetto incartato con carte colorate noi bambini vissuti per anni nelle ristrettezze non gettavamo gli incarti, anzi! Con pazienza stiravamo questi piccoli tesori lisciandoli con cura con il dorso delle unghie e li tenevamo da parte.

Così quel primo Natale abbiamo ricoperto delle castagne e delle nocciole, delle coccole di cipresso e delle noci con le nostre cartine appendendole poi al ramo dei mandarini.

Nonostante fossi piccolissima ne ho delle immagini precise; ricordo che mi sembrava bello e che sembrava bello anche ai nostri vicini di casa (vivevamo in una specie di casa popolare) che venivano a vederlo.

Come dicevo era il primo “albero” di Natale che si vedesse da quelle parti.

Era così bello, fiabesco, colorato che ci conquistò subito tutti e diventò presto una tradizione. Solo un paio d’anni dopo il ramo fu sostituito da un vero e proprio abete come si cominciavano a vederne anche sui giornali.

Il nostro era uno di quelli che la Guardia Forestale tagliava per motivi di tutela del bosco facendone poi arrivare uno a casa nostra ogni anno qualche giorno prima di Natale.  Credo che questa attenzione fosse dovuta al fatto che babbo era il dirigente dell’ufficio delle imposte… in ogni caso veder arrivare l’albero era una festa.

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Un anno era così grande che dovettero lasciarlo nell’atrio del palazzo e tagliarne un pezzo perché riuscisse ad entrare in casa! Il profumo di resina riempiva tutti gli ambienti e durava per tutte le feste

Anche le decorazioni cambiarono radicalmente. Il benessere cominciava a farsi strada e ogni anno i nostri genitori facevano una trasferta a Rimini, partendo presto con la corriera, e tornavano carichi di pacchetti che sparivano subito chissà dove.

Avremmo visto le meraviglie che contenevano solo il giorno di Natale, perché durante la notte della vigilia babbo e mamma avrebbero addobbato l’albero ricoprendolo di decorazioni in vetro soffiato, ghirlande luminose, festoni dorati… e dolciumi.

Ai piedi del meraviglioso albero ci sarebbe stato poi un pacchetto per ognuno di noi.$_59

ps: le immagini provengono dal web che ringrazio…

ricordando Matera

i ricordi di un lungo amore per una città unica al mondo: Matera

i balconcini di Matera copiaChi è stato a Matera (ormai sono tantissimi) riconosce di sicuro questo posto: sono “i terrazzini”, il punto dove dalla Piazza Pascoli ci si affaccia sulla magnifica distesa dei Sassi, sosta immancabile di ogni tour per turisti.

Quando abbiamo cominciato noi ad andare quasi ogni anno a Matera, negli anni ’80, i turisti erano davvero scarsi. Noi  dovevamo ogni volta spiegare ai nostri amici perché mai  avessimo voglia di tornare laggiù in questo posto che secondo loro “sì, è strano, particolare, ma insomma… visto una volta…”

Allora la città viva, quella dove si andava a passeggiare, comprare, fare affari, insomma vivere, quella con i bei palazzi settecenteschi, sorta sul pianoro al di sopra della voragine dei Sassi, formava una specie di muro dal quale non si poteva vedere niente e solo arrivando fino qui, sulla piazzetta G.Pascoli, si riusciva ad affacciarsi e cogliere l’ampiezza dello splendore di quel miracolo che sono i Sassi.

la parete chiusa che impediva la vista dei Sassi dalla Piazza
la parete chiusa che impediva la vista dei Sassi dalla Piazza

Avevamo l’impressione che la città “alta”, borghese, volesse ignorare quella arcaica, rupestre, povera e via via abbandonata dei Sassi.  La prima volta che arrivammo ai terrazzini c’erano affacciati tanti signori anziani che guardavano di sotto.

Gentilmente si scostarono per fare posto a noi che, incantati, continuavamo a spalancare gli occhi più che bambini davanti a babbo natale.  Ed era così ogni volta, negli anni. Naturalmente veniva facile chiedere.

Era gente che ci aveva abitato, indicavano via via le loro vecchie abitazioni, che spesso ormai stavano crollando, i minuscoli orticelli, lembi rubati al bisogno: un fico, un rosmarino, una vite, due ceppi di verdura…).  Nello sguardo e nelle parole una nostalgia, una sofferenza, un rimpianto tangibili.

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Qualcuno ancora teneva lì la cantina dove faceva qualche damigiana di un vino ruvido e aspro come la terra che lo nutriva.   (Una volta che camminavamo in autunno fra i vicoli deserti trovammo un signore che stava trafficando nella sua cantina; come è tradizione in ogni latitudine ce ne offrì, offerta rituale che non si può rifiutare così ne prese un sorso anche Giorgio che essendo assolutamente “analcolico”… se ne ubriacò!)

Ricordo le parole di uno di questi signori affacciati sul terrazzino che indicandomi gli slarghi fra i vicinati, le piccole piazzole libere dalle costruzioni adesso deserte, con lo sguardo triste diceva:

“Se ti affacciavi qui alla sera non riuscivi a vedere il pavimento tanta era la gente che ci stava…”

Poi è cambiato tanto: tornando dopo un intervallo di due-tre anni trovammo grandi novità.

P. Vittorio Veneto prima del 1992
P. Vittorio Veneto prima del 1992

La piazza principale, Vittorio Veneto, che conoscevamo come una grande spianata in lieve pendenza, con un monumento ai caduti, qualche aiuola e una parete verso est, formata da una piccola graziosa chiesa (chiusa) e tre archi (chiusi) a impedire di guardare il Sasso sottostante.

Lì accanto c’era una Farmacia dove al mio esordio feci ridere tutti i clienti; ci entrai appena arrivata e con enorme stupore, dietro al grande bancone presidiato dai farmacisti vidi una finestra enorme che incorniciava i Sassi illuminati dal sole. Devo aver esclamato qualcosa, si girarono tutti….           È stata la mia prima visione dei Sassi: indimenticabile.

Ci era voluto del tempo per capire che le due Matera si voltavano reciprocamente le spalle e imparammo a trovare e infilare i varchi che dal Piano, la parte della città borghese settecentesca, permettevano di scendere là dove poi ci perdevamo a camminare per ore.  Tornando dopo un certo intervallo trovammo delle novità affascinanti: la Piazza  intanto era stata aperta  sul suo sottosuolo portando alla vista e poi alla possibilità di visita strutture antiche e interessantissime come il Palombaro Lungo, una grande cisterna parte del sistema idrico della città.

Piazza Vittorio Veneto dopo il 1993
Piazza Vittorio Veneto dopo il 1993
il Palombaro Lungo, grande cisterna scavata nel tufo
il Palombaro Lungo, grande cisterna scavata nel tufo

Abbiamo scoperto anche la chiesa rupestre Santo Spirito, restata sepolta per secoli e  ancora, magnifico, l’affaccio ai Sassi attraverso i tre archi del chiostro e poi l’apertura della piccola chiesa Mater Domini, con la sua torretta campanaria e la caratteristica scaletta.

la chiesetta di Materdomini
la chiesetta di Materdomini

Una storia movimentata quella di questa chiesetta:

“Man mano che l’urbanizzazione avanza anche sul “Piano“, uscendo quindi dai rioni Sassi con la costruzione di nuovi palazzotti privati e del Monastero dell’Annunziata (1747), si rende necessario uno spostamento della chiesa sul livello del nuovo piano di calpestio, al pari di quella che successivamente diventerà piazza Vittorio Veneto. Viene quindi edificata la nuova chiesa di Mater Domini, sopra la vecchia chiesa rupestre del Santo Spirito. Quest’ultima viene, nei secoli successivi, nascosta dalla nuova piazza ed abbandonata, per poi ritornare alla luce negli anni ’90 del XX secolo, a seguito di alcuni lavori che hanno interessato la piazza e che ne hanno determinato l’attuale conformazione, con gli altri complessi ipogei.”

la chiesa ipogea di S.Spirito
la chiesa ipogea di S.Spirito
particolare della chiesa ipogea di S.Spirito,
particolare della chiesa ipogea di S.Spirito,
dal varco della chiesa di S.Spirito l'affaccio sui Sassi
dal varco della chiesa di S.Spirito l’affaccio sui Sassi

Questi lavori che hanno rivoluzionato la grande Piazza mi sono sembrati come i segno della pace fatta fra la Matera antica e con la propria nobilissima e lunghissima storia anche se non era finita: per prepararsi al grande anno della “Matera città mondiale della cultura” la Piazza è stata nuovamente modificata.

Matera: una città con un lunghissimo passato, un presente  vivace  e lo sguardo rivolto al futuro.

piazza-vittorio-venetoRingrazio il web per la maggior parte delle foto

A S.Giovanni anche i mazzetti porta fortuna

ancora una tradizione, poetica e suggestiva, legata al solstizio d’estate e a S.Giovanni

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Tante le tradizioni intorno a S.Giovanni e il solstizio d’estate (l’acqua profumata, la barca, il nocino…) che stanno recuperando una certa popolarità e un po’ hanno anche annoiato…
Ce n’è una meno conosciuta, la scopro sui social: i mazzetti di S.Giovanni.
Sulle bancarelle della Fiera del Santo che si tiene a Cesena si trovano in vendita mazzetti composti da lavanda, grano e aglio, legati con nastri rossi. Ogni cosa ha un senso, un significato e una funzione: la lavanda per la salute, il grano parla di prosperità, l’aglio e il fiocco rosso contro il malocchio.
Poi naturalmente chi è meno attento al rito e crede di migliorare l’estetica… aggiunge nastri di colori pastello e tanti saluti agli scongiuri!
24-6-2021 Cesena F.Barzanti
Naturalmente sono incuriosita e chiedo notizie: c’è chi racconta
“La mia nonna, nata e vissuta nella pineta ravennate, osservava ogni anno a San Giovanni la tradizione con qualche modifica rispetto Cesena….7 spighe di lavanda per la salute, 7 spighe di grano per la prosperità, un fiore rosso, contro il malocchio. Il mazzolino era legato da un nastrino rosso anche quello contro il malocchio. Era un mazzolino povero come povera e semplice era la tradizione contadina”
Povero ma ricco di cultura: quel 7 ripetuto richiama le fiabe antiche (sette paia di scarpe…) ma anche la Bibbia…..
C’è chi aggiunge: “la lavanda oltre a profumare la biancheria allontana le streghe e attira le fate”
E poi ci sono anche mazzetti abbastanza diversi, ma sempre beneauguranti come dice il loro nome: fortunelli di S.Giovanni, in uso in qualche parte della Lombardia, composti da iperico (ancora lui!) e grano, legati con nastro rosso.
 Vilma Mena iperico grano fortunello
Ormai l’occasione è passata, ma potrebbe essere utile ricordarselo il prossimo anno.
grazie alle pag fb di Fiorenzo Barzanti e Vilma Mena

Tempo di mietitura

la mietitura di un tempo, con le sue fatiche, i suoi riti, i ricordi e le nostalgie che suscitano le immagini prima che arrivasse la mietitrebbia

1 ieri c'era granoPassa la mietitrebbia… Fino a ieri in questo campo c’era il grano e solo nel giro di poche ore il terreno è diventato così, sgombro, pronto per essere arato e il grano e la paglia sono stati accumulati nei rispettivi magazzini.

Tempi moderni. Le foto in bianco e nero della mietitura negli anni ’60 raccontano qualcosa di molto diverso.

1743672_509803729174001_1250919541704851948_nÈ una storia di una fatica lunga e complessa , fatta di tanti passaggi ognuno da eseguire con perizia e abilità e anche rispettando la tradizione. La pubblicazione di queste foto straordinarie suscita ricordi e rimpianti immancabili dato che ci sono ancora molti testimoni che hanno vissuto quell’esperienza. Anche io da bambina ho partecipato, più che altro per gioco, alla mietitura armata di un piccolo falcetto.

11665_507703819383992_6335499745937641936_nLa squadra dei mietitori, i contadini del podere e anche i vicini (con cui ci si scambiava il favore) prendevano posizione ai piedi del campo e allargavano le braccia a prendere la misura della “presa”, la striscia di grano che avrebbero mietuto e poi si partiva. Nella mia piccola esperienza dopo poche falciate mi accorsi che i due mietitori ai miei lati avevano proseguito tagliando davanti a me, lasciandomi solo una isoletta di grano… ormai avevo giocato abbastanza.

campagna di FilottranoCominciava così la liturgia: i pugni di spighe tagliate venivano posate in piccoli mazzi detti “mannelli” che venivano poi ammucchiati in fasci più grandi legati da un legaccio fatto con le spighe secondo un canone preciso e codificato, il “balso”  “il balso richiedeva del grano con lo stelo particolarmente lungo;  a casa mia, per realizzare il balso, si seminava una piccola quantità di un grano specifico, che si chiamava “il Roma”, i cui steli superavano il metro di altezza.”

due mietitrici
la mietitrice in piedi prepara il balso per legare il fascio di grano che l’altra prepara

E poi la costruzione dei cavalletti detti anche covoni, anche loro con la loro liturgia precisa e codificata dalla logica e dalla tradizione del luogo: il numero dei fasci, dispari, il nome del primo sorce=topo e dell’ultimo “cavallo”, le spighe rivolte verso il centro della croce per ripararle dalle intemperie…

Covoni

E i covoni disposti sul campo con regolarità geometrica. Racconta un testimone:  Siccome avevamo un campo che si vedeva dalla strada nonno se non erano perfettamente allineati li faceva spostare “…

la formazione del "barco" con il grano portato sull'aia
il “barco” con il grano portato sull’aia

Mietere, legare, radunare, trasportare, radunare di nuovo in mucchi, riprendere a mano per trebbiare, trasportare grano e paglia; l’attesa della “macchina del batte” la trebbiatrice, un enorme cassone di legno con il suo accompagnamento del trattore che la trainava e forniva poi la forza motrice.

11334030_514766465344394_3332038958995191588_oIl corteo dei macchinari, della squadra degli addetti alla trebbia, delle auto… si sentiva arrivare da lontano, il suo fracasso era atteso e accompagnato festosamente da curiosi e soprattutto ragazzi.  Un testimone racconta: “Che emozione sentire e veder transitare per le strade polverose non ancora asfaltate “Lu trattore Landini co’ tuttu l’attaccu, trebbia, scalò, scaletta e lu carruzzittu dell’attrezzi. Un nodo alla gola mi assale…”

A leggere i commenti che accompagnano la pubblicazione sui social di foto d’epoca c’è un po’ di rimpianto per quel tempo (in cui erano giovani), per quella “serena” accettazione di una vita di fatica, ma soprattutto si resta colpiti da come quella immane fatica, quel momento cruciale della vita del podere veniva vissuta anche se inconsapevolmente come una celebrazione governata da regole dettate dalla tradizione.

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Non c’era passaggio che non avesse la sua regola, il suo nome, i suoi numeri, tramandati da secoli i suoi rituali anche se diversi da luogo a luogo. Così lo strepito della sirena che attraversava l’aria torrida e arrivava lontano, a dire a tutti con orgoglio che si erano superati i 100 quintali.  Una liturgia che aveva un suo straordinario finale, codificato e tramandato in modo immutabile: quando finalmente si era arrivati in fondo, finito di trebbiare, sull’aia si spegnevano i motori mentre ormai s’era fatta sera.

a Coldipastine MC
a Coldipastine MC

Tutti assieme si celebrava l’ultimo atto: la condivisione di un momento di festa con le bianche tovaglie sulle tavole composte dalle porte stese sui cavalletti e poi i “maccheroni del batte”, l’oca arrosto, la papera, il vino della chiavetta…

in basso a sinistra: una veloce rinfrescata e poi si mangia
in basso a sinistra: una veloce rinfrescata e poi si mangia

Del resto così si concludono le cerimonie sacre, con il rito della condivisione. Allora quel grano, curato per tutto l’anno e raccolto con giorni e giorni di fatica e sudore rappresentava il benessere e la sicurezza del prossimo futuro… tutte cose che hanno a che fare con il tempo, tanto tempo, tempo lento che non va più d’accordo col nostro modo di vivere.  Ieri sera c’era ancora il grano nel campo e in poche ore è già tutto finito.

Non è più tempo di riti

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NB: devo la maggior parte delle foto e anche dei commenti riportati in corsivo alla pagina fb di La campagna Marchigiana che ringrazio

Tempo di fare canestri

Fare canestri: un’arte antica, utile e colta

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cestaio al lavoro, campagna marchigiana – ph.Giorgio Bellagamba

L’inverno è un tempo di riposo per la terra e di conseguenza anche per i contadini. Di riposo, ma non di ozio infatti un tempo era il tempo dei lavori al riparo, dei piccoli lavori di manutenzione degli attrezzi e anche della costruzione dei cesti.

A suo tempo lungo i fossi erano stati tagliati i venchi, i rami sottili e flessibili dei salici e poi erano stati messi da parte per quando, l’inverno, al calduccio relativo della stalla, ci si metteva in compagnia a fare cesti, gavagni, canestri, gerle, panieri, sporte, crini…  Un lavoro meno faticoso certo di quello nei campi, ma non meno utile.  Adesso per noi un cestino di vimini è un oggetto decorativo, di arredo; ne abbiamo quasi in ogni casa, ma nel mondo prima dell’avvento della plastica i contenitori di qualunque tipo, per i prodotti dell’orto e quelli del campo, per trasportare e contenere  erano cesti, di fogge e grandezze diverse a seconda degli usi, ma sempre fatti a mano con ramoscelli elastici e resistenti.

la gerla di Francesco F.
la gerla di Francesco Fioranelli

Dalle gerle di legna o di fieno che i montanari portano sulla schiena alle ceste per la raccolta dell’uva e delle olive, e i canestri di uova per il pollaio, al crino…  tutti fatti ingegnosamente a mano, tutti perfettamente adatti all’uso a cui servono, tutti inventati e costruiti  seguendo regole  modelli antichi e a volte, più raramente, con qualche fantasia.

il crino del museo di Senigallia
il crino del museo di Senigallia

Alcuni tipi di cesti non sono più usuali, sono diventati quasi incomprensibili, come per esempio il “crino” che nel museo della civiltà contadina di Senigallia è definito così: si usa rovesciato per trattenere i pulcini e la chioccia ed evitare che i piccoli si disperdano nel prato.

Ormai le stalle sono diventate tutta un’altra cosa, diversa da quella specie di “salotto” in cui si riunivano anche fra vicini e passavano ore tranquille, ma non inoperose, a chiacchierare mentre erano intenti chi a fare cesti, chi ad aggiustare attrezzi, a fare la maglia, a rammendare panni, a capare verdure… tutte cose che vedevo fare tanto spesso anni fa.

Adesso è difficile vedere all’opera un cestaio e così quando, qualche anno fa, passeggiando per il paese di Sepino ho visto questa scena mi sono fermata a guardare e ho cercato di attaccare discorso. Il signore ha continuato a lavorare, ma davanti al mio entusiasmo ha risposto benchè con una certa sobrietà, alle mie domande.

il burbero cestaio di Sepino
il burbero cestaio di Sepino

Ho subito chiesto di comprare un cesto, mi pareva ovvio che li facesse per venderli e invece no, mi rispose che lui non li vendeva, li faceva perché gli piaceva farli.  Non ricordo come, certo non con la violenza ma in cambio di qualche euro, poco dopo camminavo per Sepino con l’aria fiera tenendo in braccio il cesto conquistato.

Le persone che incontravo mi guardavano con una certa curiosità che io attribuivo al fatto che ero “forestiera” in un paese piuttosto piccolo dell’interno del Molise. Ho capito però che poteva esserci un’altra spiegazione quando ho raggiunto Giorgio al bar della Piazza centrale, sempre con il mio cestino in braccio.

La barista prima di chiedermi cosa volevo bere mi chiese. “Dove ha preso quel cestino?”  Io, un po’ stupita della domanda, anche leggermente seccata, glielo spiegai e lei:     “È mio padre, non li dà a nessuno, nemmeno a noi di famiglia. Gliene ho chiesto uno per Natale e  lui non me lo ha dato…”

cesto

Abbiamo riso assieme del fatto che forse io con la mia abituale parlantina  dovevo averlo frastornato tanto che pur di togliermi di torno aveva ceduto. Ho sotto gli occhi ogni giorno quel cestino che mi ricorda Sepino, un incontro, un’arte semplice, utile e colta.

una immagine famosa, dalla pagina di "La campagna appena ieri"
una immagine famosa, dalla pagina di “La campagna appena ieri”
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