festa della mamma? Parliamone…

un’esperienza di scoperta della poesia vissuta con bambini di dieci anni. Dal sentimentalismo appiccicoso alla verità dei sentimenti attraverso la poesia di E.Lee Masters

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madre e figlio Pablo Picasso

Inizio anni sessanta, ero una  maestra giovanissima, appena nominata in una scuoletta nella campagna marchigiana. Ragazzi di dieci anni, curiosi, intelligenti, pieni di voglia di conoscere il mondo, che venivano da quattro anni di esperienza della più tradizionale e conservatrice scuola elementare.

Si avvicina maggio, la Festa della Mamma, in occasione della quale mi fanno sapere le colleghe (tradizionali e conservatrici) che si usa fare una accademia” cioè una recita a uso e consumo delle mamme degli alunni. I bambini reciteranno cose come “Mia madre ha settant’anni e più la guardo e più mi sembra bella”, le mamme si commuoveranno, i bambini offriranno dei fiori, arrivederci come é stato bello abbiamo pianto tanto.

Non potevo crederci, ma ero nell’anno di prova, erano gli ordini dall’alto della direzione didattica che poi mi avrebbe dovuto giudicare se idonea o no…

Io ero una maestrina di nuova nomina che però aveva avuto la fortuna di essere iniziata alla  poesia, mi avevano insegnato a leggere i contemporanei e non solo Manzoni.Così con i pochi soldi che avevo compravo libri di poesia e avevo comprato anche l’Antologia di Lee Masters.  Sulla collina assieme a tutti gli altri che ormai conosciamo, il poeta, l’ubriacone, le tante anime inquiete di Spoon River, dormono anche delle madri e soprattutto ce ne sono due che riassumono in sé due modi opposti di intendere il senso della vita: Lucinda Matlock  ed Elizabeth Childers.

Le propongo alla classe, i ragazzi si appassionano al punto che siamo costretti a scegliere  a caso il nome di chi le reciterà perché tutti sanno dirle bene.

Arriva il giorno dell’accademia, la direttrice, le mamme, i fiori… siamo i più grandi, gli ultimi a intervenire…  Lucinda, Elizabeth…

Stupore, imbarazzo, poi tutti si commuovono, abbiamo pianto tanto lo stesso, é stato diverso, ma bello però. Il giorno dopo la Direttrice mi chiede notizie del libro che vuole leggere…

Devo a Fernanda Pivano che aveva portato in Italia l’Antologia di Spoon River se quattordici ragazzini di campagna hanno imparato che poeta vuol dire anche Lee Masters  e non solo Giosuè Carducci con le sue rime roboanti. Molti di loro anche adulti hanno continuato a leggere poesia e, a quaranta anni di distanza, qualcuno di loro ancora se lo ricorda e me lo ricorda.

da “Dormono sulla collina” di E.Lee Masters

 Lucinda Matlock

Andavo a ballare a Chandlerville / e giocavo alle carte a Winchester. / Una volta ci cambiammo i cavalieri / ritornando in carrozza sotto la luna di giugno,/ e così conobbi Davis.

Ci sposammo e vivemmo insieme settant’anni, /stando allegri, lavorando, allevando i dodici figli, /otto dei quali ci morirono, /prima che arrivassi a sessant’anni.

Filavo, tessevo, curavo la casa, vegliavo i malati, /coltivavo il giardino, e alla festa / andavo a spasso per i campi dove cantavano le allodole, / e lungo lo Spoon raccogliendo tante conchiglie, /e tanti fiori ed erbe medicinali / gridando alle colline boscose, cantando alle verdi vallate.

A novantasei anni avevo vissuto abbastanza, ecco tutto, / e passai a un dolce riposo. Cos’è questa storia che sento di dolori e stanchezza / e ira, scontento e speranze fallite?

Figli e figlie degeneri, / la Vita è troppo forte per voi / ci vuole vita per amare la Vita.

Elisabeth Childers

Polvere della mia polvere, / e polvere con la mia polvere. /Oh, bimbo, che moristi mentre  entravi nel mondo, /morto della mia morte!

Che non conoscesti il respiro, nonostante gli sforzi, / e il cuore che batteva quando vivevi con me, / e si fermò quando mi lasciasti per la vita. E’ bene così, bimbo mio. Così non percorresti mai / la lunga, lunga strada che inizia con i giorni di  scuola / quando le piccole dita si fanno sfocate dietro le lacrime che cadono sulle lettere sbilenche /  le prima ferita, quando il tuo piccolo amico / ti abbandona per un altro;

e  la malattia, ed il volto della paura accanto al letto; / la morte del padre o della madre,       o la vergogna di essi, o la miseria.

Poi, appena finito il dolore ancora puro dei giorni di scuola, /una natura cieca ti fa bere dalla coppa dell’amore, che tu sai avvelenata.

A chi avresti proteso il tuo viso di fiore? /Un botanico, fragile creatura? Quale sangue avrebbe gridato con il tuo? /Puro o contaminato, non importa, /è sangue che chiama il nostro sangue. / E poi i tuoi figli – oh, e di loro che sarebbe stato? /

E quale il tuo dolore? Figlio! Figlio mio! La Morte è meglio della Vita!

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la madre Guido Reni

 

 

 

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