Babbo e il Natale

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babbo Costa quando ancora era "americano"
babbo Costa quando ancora era “americano”

Il mio babbo era nato negli Stati uniti, a Boston, figlio di immigrati e quando aveva circa 15 anni tornarono a vivere in Italia, in Romagna.

Negli anni terribili della guerra la mia famiglia viveva sulla linea gotica;  tanti i racconti della vita difficile e rischiosa di quegli anni di cui per l’età (sono nata nel ’43) non ho memoria. Ricordo però uno dei primi “natali” finalmente in pace. Babbo tirò fuori la sua tradizione americana: tutto quello che era americano allora era bello visto che proprio dai soldati americani eravamo stati  “liberati” e così in casa nostra facemmo il primo “albero di Natale” che si fosse mai visto da quelle parti, un angolo remoto del Montefeltro.

Albero… parola grossa. Il primo era un ramo di abete decorato da collane di preziosi mandarini e anche da pigne e noci ricoperte dalla stagnola recuperata dalle caramelle. Insomma una pena, ma allora era bello… anche così suscitava la curiosità e la meraviglia del vicinato che veniva a vederlo.

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I ricordi successivi dimostrano che le cose andavano rapidamente migliorando. Intanto il giorno prima della vigilia la Guardia Forestale veniva a portarci l’albero, privilegio dovuto al fatto che babbo faceva il daziere e dunque era uno dei cittadini  eminenti di quel paesino fra i monti. Erano abeti spesso molto belli, frutto di uno sfoltimento del bosco.                 Un anno era così grande che dovettero segarne un pezzo nel cortile prima di poterlo mettere dritto in casa. Una volta che l’albero era piantato nella nostra cucina si doveva aspettare il miracolo di Natale.

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Prima delle feste c’era stata la spedizione a Rimini, la città più vicina più ricca di negozi e di novità e da questa spedizione i nostri genitori tornavano con misteriosi fagotti… Erano i nostri regali, ma anche ogni anno festoni e decori nuovi, da aggiungere a quelli sopravvissuti dell’anno precedente.

Nella notte della vigilia l’albero spoglio si copriva letteralmente di ninnoli di vetro soffiato, candeline colorate, festoni argentati, in seguito anche di lucine intermittenti.        Succedeva tutto nella notte santa, anche il sorgere ai piedi dell’albero di un presepe minuzioso e curato, con le figurine di terracotta, le casine di legno, canne, sughero, il torrente di stagnola che finiva nel laghetto di specchio, i prati di muschio, le stradine di ghiaino e su tutto una nevicata di farina. La mia preferita era la stella cometa sopra la capanna, tutta coperta di porporina d’argento che se la toccavi ti restava sulle mani e sotto le unghie.

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Chi faceva quel miracolo erano loro due, babbo e mamma che, immagino, lavoravano quasi tutta la notte freneticamente per riuscire a fare tutto perché (per i pochi anni che durò la nostra infanzia troppo breve) mai è successo che, per quanto ci alzassimo molto presto  per l’ansia di andare a vedere se era successo il miracolo, mai abbiamo trovato che non era pronto o che c’erano in giro cartacce o altro.

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Tutto era pronto, perfetto, stupendo. I miei fratelli più grandi cercavano di origliare e a volte è capitato, pare, di sentire un certo fracasso accompagnato da qualche “porc…” di babbo e dalle rimostranze di mamma “ mo’ zo’ Costa!” (ma dai, Costa!)

Magnifici poi erano i pacchetti che erano spuntati lì, sotto quell’albero meraviglioso. Erano i regali per noi, belli, belli, bellissimi!

Ne ricordo in particolare uno favoloso: i mobili di una sala e salotto da bambola, in miniatura. Di legno, curati in ogni particolare, straordinari. Sull’albero poi, come frutti preziosi, fra le decorazioni e i festoni, c’erano anche i dolci: monete di cioccolata, stivaletti, pigne, pupazzetti, qualunque cosa in cioccolata ricoperta di stagnole lucenti e coloratissime poi collane di caramelle rossana o mou, piccoli torroncini e anche panettoni Motta in miniatura con i loro involucri di carta semitrasparente blu a stelline che avremmo conservato gelosamente e poi usato in mille modi e in mille giochi.

La gran parte di questi dolciumi era ripetuta in cinque esemplari o in multipli, anche se noi eravamo in tre. Ma c’era una logica.

Babbo amava davvero lo spirito del Natale e allora quel giorno dopo la scoperta e la colazione ci si vestiva da festa, si andava alla messa e poi si passava a prendere “gli orfanelli”. Tanti bambini durante la guerra avevano perso i genitori e nel paese dove abitavamo c’era un collegio che ne ospitava molti, li chiamavano i ragazzi di Padre Marella.

Nei giorni di festa babbo se ne faceva affidare due che avrebbero vissuto tutte le feste con noi fino a quando, il giorno della Befana (che portava altre leccornie assieme a un po’ di vero carbone di legna), tutti assieme si smontava l’albero e i dolci venivano spartiti in modo paritario fra noi tre fratelli e i nostri amici orfanelli. La cosa a me che ero la più piccola sembrava difficile da digerire… mi pareva un po’ ingiusto.  Credo che l’iniziativa di invitare i bambini di Padre Marella fosse nata dall’esempio di mio padre (quel sovversivo!) e si era poi diffusa per tutto il paese come mi hanno raccontato molti anni dopo. Comunque diventò una tradizione e nei giorni di Natale non restava nessun bambino nel collegio. Con qualcuno di loro abbiamo mantenuto i contatti per anni.

E ognuno di noi fratelli nascondeva il suo “tesoretto” di dolci in un suo posto segreto… ma il mio doveva essere proprio facile da scoprire dato che ogni anno capitava che venisse saccheggiato dai miei fratelli che si approfittavano della mia ingenuità…Se me ne lamentavo la mamma chiudeva la faccenda con un proverbio “chi sparagna e gat s’el magna” “chi risparmia il gatto glielo mangia”.

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