Quell’anno (era l’estate del 1974) abbiamo deciso di andare in villeggiatura. Avevamo tre figlie otto, sette, un anno e un bilancio non proprio floridissimo. Allora abbiamo deciso di trasferirci per l’estate in uno dei paesini poco lontano da casa (“pocolontano” era già nel nostro stile evidentemente), nel preappennino marchigiano. G poteva fare il pendolare finché non era in ferie e casa nostra restava abbastanza vicina per qualunque cosa servisse. Abbiamo scelto quel paese perché molto piccolo, ma anche molto bello, un borgo medievale murato in mezzo a una campagna molto verde e con il bosco di là della strada…
Una casetta sulla piazza principale a cui si accede da una scalinata e dunque niente auto, che comunque erano rare anche nella strada sottostante.
La casa era quanto di più spartano si possa immaginare: niente di quello che c’era era inutile. Di ornamentale c’era davvero poco: un vaso per i rami che raccoglievo nelle passeggiate che in fondo poi non era inutile nemmeno lui, qualche poster alle pareti.
Nelle camere solo i letti, non c’era nemmeno un armadio e i pochi indumenti stavano appesi a degli attaccapanni e c’era un comò per la biancheria. Un tavolo, una panca, tre sedie un frigo e un fornello a gas erano tutta la cucina. Ma c’era anche il salotto che serviva solo a me: un tavolino zoppicante di vimini e una vecchia poltrona davanti alla finestra che dava sulla campagna.
Potevo fare le pulizie generali in un’ora o poco più. Lo spazio in casa era pochissimo, ma fuori c’era un mondo intero.
Intanto tutta la piazza era spazio di gioco (e su quella piazza Giulia cominciò a gattonare e poi mosse i suoi primi passi) e fin dai primi giorni tutti i bambini del paese, pochi per la verità, cominciarono a frequentare il nostro angolo attirati anche dal cestone dei giocattoli che conteneva decine di “vestitoni” cioè vecchi abiti miei, abiti da maschera, pezzi di fodera, di tulle…cappelli, foulards con i quali si agghindavano.
Ma non ci si fermava lì: in fondo tutto il piccolo paese era disponibile. Si poteva incontrare Federica che leggeva dovunque: sulle mura, sopra gli alberi di gelso del vialetto sotto casa,
(o anche nella soffitta del prete come quella volta che si perse…), Lucia con la sua amichetta preferita che perlustravano i vicoli vivendo chissà quali avventure… e poi alla sera la meraviglia di uscire dopo cena e andare a giocare con gli amichetti intanto che noi adulti prendevamo il fresco sulla panchina sotto casa per stare vicino a Giulia (finché era piccola) che – sfinita – dormiva.
A turno uno di noi genitori scendeva la scalinata e andava all’osteria, un piccolo locale che fungeva da luogo di ritrovo: un gelato, due chiacchiere, magari una partita a biliardino.
La possibilità di giocare di notte, senza la sorveglianza dei genitori, correndo a nascondersi per tutto il paese (piccolo si, ma comunque un paese intero, con vicoli, angoli bui, piazzette, archi, sporti, scalette…) senza altra regola che accorrere al richiamo quando era ora di andare a letto é stata una grande esperienza. Ad anni di distanza le figlie mi hanno raccontato che per loro é stato come toccare con mano la libertà senza limiti e anche sentirsi padroni di se stessi, insomma “grandi”. E pensare che nella casa di Jesi, al quarto piano in centro storico, avevano imparato ad andare in triciclo girando nella mia camera da letto che per fortuna era enorme.
A Domo uscivano dopo colazione e poi ogni tanto una visita per uno spuntino o per annunciare la decisione di andare più lontano poi a casa per pranzo e lì aiutava il campanile della chiesa che scandiva le ore, cosa che fa anche in città solo che lì si sentiva bene! Insomma ogni giorno un pieno di possibilità e di avventure.
Un anno ci venne a trovare per qualche giorno N. una amichetta, figlia di carissimi amici, che era appena tornata da un viaggio in California. Viveva normalmente a Bruxelles e viaggiavano molto.
La prima mattina all’invito delle mie figlie ad andare fuori lei si negò così loro tagliarono la corda come sempre. N. continuò per qualche ora a seguirmi da vicinissimo finché le spiegai che Domo era bello per i bambini e anche per gli adulti perché entrambi potevano fare quello che volevano senza essere tallonati da presso e la invitai ad andare a cercare quelle altre… Capì l’antifona e anche lei prese a seguire la regola di venire a casa per mangiare, dormire e fare pipì.
La gente del posto la prendeva un po’ in giro perché lei si meravigliava di tutto e una sera tornò con una scatola da scarpe dove aveva raccolto delle chiocciole e mi chiese un po’ di granturco perché le avevano detto che mangiando quello avrebbero cantato….
Con garbo le ho spiegato che non era così poi sono andata dall’adulto che le aveva fatto lo scherzo e gli ho spiegato che se lui fosse andato dove viveva N. forse si sarebbe trovato anche più a disagio di quella bambina lì in campagna…
Una volta tornata a Bruxelles nella Scuola Europea che frequentava le chiesero di scrivere delle esperienze estive e N. raccontò di questa straordinaria “città” senza semafori, dove i bambini andavano dove gli pareva senza pericoli, dove si giocava a rincorrersi di notte per le strade…Gli insegnanti che sapevano del viaggio in California (e non di quello a Domo!) preoccupati per la stranezza di questi racconti chiamarono i genitori che chiarirono il tutto…. N. sapeva cosa era meglio per un bambino!