La primavera e Beethoven

1960, primavera.
Dopo mesi e mesi  lunghissimi di nebbia fitta e cielo basso e grigio come solo possono esserci nella bassa romagnola per la prima volta andiamo a scuola sotto un sole brillante e un cielo azzurro che quasi non ci ricordavamo più.
E’ una scuola superiore, siamo all’ultimo anno e quando all’improvviso si accende l’interfono e la voce severa del Preside invita tutti noi maturandi a scendere in Aula Magna.
Cosa mai accaduta e  siamo preoccupati, sorpresi, elaboriamo ipotesi fantascientifiche e, soprattutto, tremende mentre scendiamo le scale.
Ma quando siamo tutti riuniti nell’emiciclo scopriamo che le nostre fantasie non avrebbero mai saputo uguagliare la realtà

“Siccome oggi é il primo giorno in cui davvero sembra primavera ho pensato che sia giusto celebrare la bellezza di questa giornata ascoltando tutti assieme la Sesta Sinfonia di Beethoven

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Senza parole!
Ci dice in modo semplice ed efficace il senso e le caratteristiche della musica e poi lascia che assieme al primo movimento anche la nostra mente esca nella campagna…
Eppure era severo e bacchettone:  la primavera  e la sua passione di educatore avevano ispirato anche lui oltre al vecchio caro Ludvig van!

Cenerentola in libreria

Adesso mi capita di comprare i libri on-line e spesso sono delle belle delusioni all’apertura del pacco, ma a parte la possibilità di scegliere, toccare, anche annusare i libri prima di comprarli quello che mi manca é il libraio.
Ne ho conosciuti anche di insopportabili supponenti o ignoranti, ma ne ho conosciuti di deliziosi come quello che a Matera  raccontava con vivaci e straordinarie sintesi le trame o il contenuto dei libri che gli mettevi in mano, grande affabulatore!
Ma a uno di loro devo molto e se la storia  che racconto ha il tono di una favola é perché é stata a suo modo favolosa.

Forlì fine anni ’50, in un’Italia che si avviava al boom  una ragazzina che viveva in collegio.
Soldi zero, vestita con una divisa avvilente ( indumenti blu, ottenuti tingendo con la polverina i vestiti vecchi, un vero squallore!) costretta dal regolamento del collegio ad uscire sempre in fila con accompagnatrice una suora..
L’unico tipo di uscita che potevo fare da sola era per andare in biblioteca o in libreria.
La libreria mi piaceva; l’antica Libreria Editrice Zanelli, sotto i portici della Piazza principale, mobili di legno vecchio profumati di cera, parquet, leggii dove posare i libri per sceglierli e una sala dove venivano esposti quelli appena arrivati.. una vera goduria.
Io non avevo soldi, e riuscivo a rimediare qualche centinaio di lire risparmiando sulla merenda.
Facevo così: i miei a fatica riuscivano a darmi qualche volta mille lire per comprare affettato o marmellata da mangiare col pane per merenda dato che il collegio forniva solo pane e non il companatico; io non compravo niente e a merenda mangiavo il pane da solo e per companatico… il libro che ero riuscita a comprare con quei soldi.
Editori benemeriti avevano reso possibile il miracolo: conoscere il mondo attraverso tutti gli autori stranieri  con  i libri del Pavone Mondadori, lire 250 il volume singolo, che mi hanno fatto conoscere Hemingway, Faulkner, Steinbeck..
E i bruttissimi grigissimi volumi della BUR, lire 70 al volume singolo e multipli per volumi doppi, tripli… tutta la storia della letteratura, Ariosto, Tolstoi, Dostojevski, Machiavelli, Cervantes, Dumas, …. tutti!
Si faticava a leggerli carta grigia e caratteri piccoli piccoli ma la fatica valeva la pena.

Dunque con il mio gruzzoletto davvero misero entravo lì, nell’elegante Libreria frequentata dai signori di Forlì, e dopo aver accarezzato, toccato, sfogliato uscivo col mio librino modestissimo.
Bastava un’occhiata anche distratta per capire che non ero un cliente che avrebbe fatto guadagnare il libraio e lui, il Signor Zanelli, elegante nel suo completo scuro, barbetta e capelli bianchi, era un uomo navigato dunque sapeva valutarmi.
Non mi aveva mai trattato con superiorità, ma un giorno che avevo comprato un libro di Remarque (vedi il post sul libro rubato)  mi chiese come mai avevo fatto quella scelta.
Io, felice di aver modo di parlare di libri, gli spiegai la mia passione per “Niente di nuovo sul fronte occidentale” e la commozione che provavo leggendolo.
Lui restò molto colpito e mi disse  che lo avevo fatto felice perché gli avevo mostrato che c’erano dei giovanissimi che sapevano amare i libri e condividere le idee di pacifismo e di rifiuto della guerra di una generazione che di guerre e violenze ne aveva viste e prodotte tante (il fascismo era finito da poco e anche la 2^ guerra mondiale).
Mi disse che erano i lettori come me che valevano la pena e che andassi pure tutte le volte che volevo e per tutto il tempo che volevo a leggere e guardare.
Una stretta di mano vigorosa e io uscii tutta emozionata e contenta.

Dopo aver raccolto nuovamente un piccolo gruzzoletto tornai da Zanelli; in negozio c’erano parecchi clienti, io aspettavo il mio turno, un po’ in imbarazzo con la mia divisa squallida fra tutta quella gente elegante.

Il signor Zanelli mi vede e rivolgendosi a uno dei commessi “Fai accomodare la signorina in sala di lettura e mostrale le novità che ho messo da parte per lei”
Ed ecco a voi Cenerentola in persona che passa davanti a tutti i cortigiani ammutoliti per la sorpresa che le fanno largo e la lasciano  entrare nel paradiso dei libri dove … visse delle ore  felice e contenta.

Caro Signor Zanelli che ha guardato oltre gli stracci… mi basta vedere la costola di uno di quei libri per pensare a lui con gratitudine.
So che c’é un paradiso dei libri e lì passeggiano autori, lettori e librai sorridenti e generosi, e il Signor Zanelli ogni tanto dice: “fate accomodare….” e un nuovo lettore viene assunto nel cielo beato della lettura.

Il libro “rubato”

Nonostante la passione per i libri e i pochi soldi nella mia vita ho rubato soltanto un libro.
Anzi, non l’ho mai restituito…
E non si tratta della mancata restituzione del libro che ti hanno prestato e che non ti ricordi di ridare, no, io ho proprio deciso che non lo avrei restituito alla biblioteca pubblica dove l’avevo preso.
Non glielo avrei ridato perché non potevo proprio separarmene.
Per me era vitale averlo, copiarne delle frasi, rileggerlo, tenerlo con me.
Era “Niente di nuovo sul fronte occidentale”  di E.M. Remarque.
Un libro sulla prima guerra mondiale, scritto da un tedesco pacifista, un libro datato, anche un po’ retorico.
Non ho mai capito del tutto perché per almeno un paio di anni sia stato il mio libro del cuore, di cui sapevo a memoria pagine intere che mi ripetevo dentro di me provandone un grande piacere, commozione  e anche molta compassione per il protagonista che racconta le sue vicende di trincea.
Avevo circa quattordici anni e una vita difficile, da orfanella costretta dentro un collegio molto rigido dove tutto era proibito.
Probabilmente sentivo una certa somiglianza  fra la  condizione del protagonista e la mia, soprattutto quando lui descriveva il rimpianto per la sua giovinezza sprecata.
E’ una spiegazione che mi é apparsa chiara adesso… cinquant’anni dopo!

Mi sono sempre ripromessa di ricomprarlo per restituirlo, perché dalla  copia “mia”, quella sulla quale avevo conosciuto la storia, quella letta e riletta, sottolineata e ormai consunta non avrei mai potuto separarmi.
Ogni tanto, nei traslochi, il libro l’ho perso e altre l’ho ritrovato.
Adesso da qualche anno non so più dove sia.

La favola di Luisa

Sembra una favola.

La favola di Zia Luisa (anzi Luigia che era il suo vero nome)
La guerra era finita da poco o forse eravamo nel periodo in cui l’Italia era divisa fra un Nord ancora sotto i tedeschi ed un Sud già “liberato”.
Dunque: zia Luisa viveva a S.Mauro, dove era la casa del marito Giovanni che però era militare,  prigioniero in Jugoslavia (a Budua,  sul Cattaro dove lo aiutarono degli slavi che solo trent’anni dopo riuscì a rivedere.. un’altra storia…)
La fame era tanta perché non c’era lavoro e Luisa aveva anche la responsabilità dei genitori di Giovanni e della sorella..
Lei era piena di voglia di fare e soprattutto era abituata a non arrendersi del resto già da bambina era andata a lavorare come garzona (cioè tutto fare poco pagata ) da una fruttivendola che aveva una botteguccia sulle scalinate che portano dalla Piazza alla Collegiata (cioè la chiesa principale) di Santarcangelo.
Era una vita dura per una bambinetta come era a quel tempo, ma la zia l’ha sempre raccontato come un periodo felice;  il lavoro le piaceva, soprattutto darsi da fare per fasi apprezzare dalla gente la rendeva orgogliosa di sè.
Insomma vendere era il suo mestiere, ma in quel durissimo dopoguerra non c’era niente da vendere, anzi –  come me lo raccontava lei – nel riminese ci sarebbe anche stato il modo di trovare della merce, ma nessuno aveva i soldi per comperare e nemmeno altre merci da scambiare.
Un giorno (diceva proprio così, come nelle favole) si venne a sapere che giù, nelle Marche, era possibile fare qualche affare, c’era disponibilità di denaro.
Era difficile crederlo, ma in effetti il bisogno era tale che il rischio non riusciva a spaventare, specie un carattere forte come quello di Luisa.
Aveva un’amica a S.Mauro, la Guerrina, anche lei col marito disperso in guerra, che non si sapeva se vivo o morto e anche lei senza niente da mangiare.
Si fecero coraggio e andarono da un conoscente che aveva un ingrosso di panni a Rimini, un certo Conti e si fecero dare a credito qualche pezzo di stoffa, qualche lenzuolo… poche cose con la promessa di pagare appena – e se – fossero riuscite a vendere. Avranno anche firmato delle cambiali,  non so bene, certo hanno fatto un grosso azzardo ad indebitarsi tanto, ma l’azzardo più grosso lo fecero poi, quando con il loro carico prezioso infilato in una valigia di fibra (il cartone pressato che allora stava in luogo del cuoio) presero un carro merci che andava a sud.
Il viaggio era stato fortunoso ma per Luisa e la sua compagna, nonostante la preoccupazione era comunque una esperienza straordinaria, fino ad allora erano andate da Santarcangelo a S. Mauro a Rimini, 20 chilometri in tutto!
Scesero ad Ancona, la stazione dava sul porto semidistrutto dai bombardamenti e anche la città era un ammasso di macerie.

Raccontava zia Luisa che, piene di paura e di imbarazzo, posarono la loro valigia aperta, con le stoffe in vista,  sul marciapiede di una stradina dietro Piazza Roma ….

Raccontava:
La gente che passava si fermava e guardava,  in silenzio.
Dopo pochi minuti si era formato un cerchio di persone che, in silenzio, ci guardavano e guardavano la nostra roba lì per terra… nessuno parlava…
Ho avuto paura. Anche la Guerrina mi guardava con gli occhi smarriti…
Ecco, adesso ci saltano addosso, ci portano via tutto, povere noi cosa abbiamo fatto!!
Poi la gente ha cominciato a parlare, a domandare da dove venivamo, quanto costava….
Noi avevamo paura, ma anche loro erano in difficoltà perché erano anni ormai che non si vedeva una bancarella o un mercato da queste parti ed erano ammutoliti, in fondo, per la sorpresa.

Alla sera  erano tornate a casa avendo venduto tutto, con i soldi per pagare il debito e un buon gruzzolo di guadagno.
Anzi: uno dei clienti aveva fatto a Luisa  e alla sua socia una proposta.
Perché non tornavano giù con dell’altra roba e, invece di fermarsi ad Ancona, non arrivavano fino ad una cittadina poco lontana, dove lui era sicuro di poterle aiutare a fare bene, a vendere tutto con un buon guadagno?

Il viaggio di ritorno fu allegrissimo, ma poi cominciarono a ragionare sulla cosa, Luisa voleva provare a tornare, la sua socia era molto perplessa..
In effetti non so i particolari, ma Luisa riprese la strada delle Marche, arrivò a Jesi dove le cose stavano proprio come aveva detto quel tizio: la gente aveva qualche soldo perché in fondo lì il  lavoro  c’era e la campagna produceva nonostante la guerra, il fronte non aveva fatto grossi danni e la gente da anni ormai non aveva stoffe  da comprare.
Tornavano ogni volta dal Signor Conti a fare scorta e pagavano ormai col cuore più leggero, vedevano una prospettiva.
Luisa si rese presto conto che  bisognava prendere una decisione, non si poteva fare le pendolari  in eterno per distanze così lunghe e in tempo di trasporti tanto precari. Cercò di convincere Guerrina a trasferirsi nella cittadina marchigiana e mettersi a girare i paesini attorno, fare i mercati, con un banco di tessuti.   Guerrina aveva paura, non se la sentiva di lasciare il suo paese, i parenti,…e allora si separarono.

Luisa si sistemò in una stanza in subaffitto in cima a un palazzo buio e vecchio nel centro storico della cittadina nei pressi di Ancona (ho un ricordo vago del terrazzino dal quale mi affacciavo bambina  venuta a trovare la zia e vedevo un cortilino lungo lungo,  stretto e grigio) cominciò a girare i mercati.

Ebbe subito un gran successo perché la sua parlata romagnola, la sua simpatia, la sua comunicativa erano irresistibili per i marchigiani, naturalmente ritrosi e introversi.
E assieme alla simpatia la aiutava la furbizia innata (del resto la sua mamma aveva per soprannome “la faina”!) e una gran voglia di lavorare purché non si trattasse dei lavori domestici che odiava.
Non c’erano i mezzi e lei si procurava e pagava il passaggio sui camion che portavano parecchi ambulanti con le loro merci  caricati sul cassone all’aperto.

Freddo e fatica a stufo… ma col ritorno del marito, l’acquisto di un camioncino residuato bellico… la ripresa economica… diventò una signora e benché – o forse proprio perché  – aveva conosciuto la miseria e la fame si godeva i lussi che si poteva permettere.
Si comprò negozi, case, terreni, gioielli, pellicce, soprammobili pacchiani e costosi….
Andava alla stagione lirica a Verona facendosi portare dal suo amico tassista, a cui pagava albergo e teatro.. dicendo a casa che ci andava in treno!
Per decenni continuò, anche quando ormai la sua clientela richiedeva merce raffinata che doveva procurarsi altrove, a fornirsi dal famoso Signor Conti di Rimini perché non dimenticava mai chi l’aveva aiutata quando non aveva niente e le aveva dato fiducia.
La Guerrina mise su un negozio a S.Mauro.. non si spostò mai e non fece mai molta fortuna, non c’era tagliata.

 

Io e i libri

Ho letto molte migliaia di libri.  E libri di molte centinaia di tipi diversi.

Molti mi hanno fatta felice, qualcuno mi ha fatto arrabbiare, altri mi hanno fatto intristire, tanti forse troppi mi hanno lasciata indifferente benché anche in questo ci sia del buono: se ti cade dalle mani quando ti addormenti e perdi il segno quando ti svegli e vuoi continuare a leggere puoi tranquillamente aprire a caso.. tanto é indifferente.
I famosi libri per dormire anzi da dormire
Qualcuno l’ho buttato direttamente nella carta da riciclare, anzi una notte mi sono alzata apposta per gettarne via uno che non volevo ammorbasse l’aria della mia stanza né la mia libreria.
Da un po’ di tempo in qua leggo e dimentico poco dopo; comodo e utile così se resto senza niente di nuovo da leggere basta pescare fra quelli che sono lì da un po’:  come nuovi e a metà prezzo!

Ogni tanto capita di sentire qualcuno in TV o alla radio che chiede al personaggio di grido quale sia il libro della sua vita (veramente capita più spesso che parlino di film o canzone..) e a me viene da pensare cosa risponderei io.
Ci devo aver pensato su a lungo, senza accorgermene, in quella parte di me che si fa lunghe e interessanti chiacchierate con me stessa e come sempre so che la domanda ha più di una risposta.

Layout 1Un libro che mi ha segnata, avevo dieci o undici anni, è stato Zanna bianca di J. London.
L’avevo portato a casa dalla bibliotechina scolastica  ma appena cominciato non sono più riuscita a smettere di leggere così ho ottenuto di rimanere alzata dopo cena per poter continuare almeno un po’.
Erano i primi anni cinquanta e in inverno si andava a letto subito dopo cena per risparmiare luce e legna.
Nella casa dove vivevo per scaldarsi c’era solo la cucina economica (vedere eventualmente su Google..) che  i miei dopo cena lasciavano spegnere e che quindi conservava un po’ di calore solo se si stava molto vicini. Anzi, siccome i piedi gelavano, li mettevo dentro al forno (come Pinocchio) per scaldarli un po’.
Curiosamente di questo episodio ricordo tutto, anche dettagli e sensazioni, anche dove ero e come stavo, il freddo, il silenzio della casa addormentata, me che leggevo e leggevo e finivo il libro…e mi mettevo a piangere.
Un pianto disperato, con singhiozzi e lacrime. Eppure il libro é a lieto fine.

Infatti non era la vicenda che mi faceva piangere ma la sensazione di essere stata abbandonata, la consapevolezza che il libro mi aveva chiuso la porta in faccia,  che dovevo per forza andarmene da quella storia nella quale avevo vissuto fino a quel momento.
Una sensazione profonda di esclusione senza rimedio.
Loro avrebbero continuato a vivere la loro storia e io restavo sola nella cucina ormai gelida.

In memoria di Fernanda Pivano

A dire la verità non mi stava per niente simpatica, così eccessiva e  un po’ fanatica.
Trovavo eccessivi i suoi entusiasmi per certi scrittori “sulla strada” che a me parevano solo la esaltazione di un maschilismo senza freni, scambiato per coraggio, trasgressione, inno alla libertà (curioso che le donne nella  poetica di questi on the road compaiano solo come necessario complemento del rapporto sessuale , e in piena esplosione del femminismo!).
Ho saputo dopo che a lei dovevo la pubblicazione in Italia dell’Antologia di Spoon River.  Allora penso di doverle rendere quanto le devo.

Antologia%20di%20Spoon%20River_fronte.jpgInizio anni sessanta, ero una  maestra giovanissima, appena nominata in una scuoletta nella campagna marchigiana.
Ragazzi di dieci anni, curiosi, intelligenti, pieni di voglia di conoscere il mondo, che
venivano da quattro anni di esperienza della più tradizionale e conservatrice scuola elementare.
Si avvicina maggio, la Festa della MAMMA, in occasione della quale mi fanno sapere le colleghe (tradizionali e conservatrici) che si usa fare una accademia cioè una recita a uso e consumo delle mamme degli alunni.
I bambini reciteranno cose come “Mia madre ha settant’anni e più la guardo e più mi sembra bella”, le mamme si commuoveranno, i bambini offriranno dei fiori, arrivederci come é stato bello abbiamo pianto tanto.
Non potevo crederci, ma erano gli ordini dall’alto della direzione didattica che poi mi avrebbe dovuto giudicare se idonea o no…
Io ero una maestrina di nuova nomina che però aveva avuto la fortuna di essere iniziata alla  poesia, mi avevano insegnato a leggere i contemporanei e non solo Manzoni.
Così con i pochi soldi che avevo compravo libri di poesia e avevo comprato anche l’Antologia di Lee Masters.

Sulla collina assieme a tutti gli altri che ormai conosciamo, il poeta, l’ubriacone, le tante anime inquiete di Spoon River, dormono anche delle madri e soprattutto ce ne sono due che riassumono in sé due modi opposti di intendere il senso della vita :
Lucinda Matlock  ed Elizabeth Childers. Le propongo alla classe, i ragazzi si appassionano al punto che siamo costretti a scegliere  a caso il nome di chi le reciterà perché tutti sanno dirle bene.
Arriva il giorno dell’accademia, la direttrice, le mamme, i fiori… siamo i più grandi, gli ultimi a intervenire…  Lucinda, Elizabeth…
Stupore, imbarazzo, poi tutti si commuovono, abbiamo pianto tanto…. é stato diverso, ma bello però.
Devo a Fernanda Pivano dunque se quattordici ragazzini di campagna hanno imparato che poeta vuol dire anche Lee Masters  e non solo Giosuè Carducci con le sue rime roboanti.
Molti di loro anche adulti hanno continuato a leggere poesia e, a quaranta anni di distanza, qualcuno di loro ancora se lo ricorda e me lo ricorda.

Nonostante gli eccessi, dunque: grazie Fernanda Pivano.

LUCINDA  MATLOCK
Andavo a ballare a Chanderville,
e giocavo alle carte a Winchester.
una volta cambiammo compagni
ritornando in carrozza sotto la luna di giugno,
e così conobbi Davis.
Ci sposammo e vivemmo insieme settant’anni,
stando allegri, lavorando, crescendo dodici figli,
otto dei quali ci morirono,
prima che avessi sessant’anni.
Filavo, tessevo, curavo la casa, vegliavo i malati,
curavo il giardino e alla festa
andavo a spasso per i campi dove cantavano le allodole
e lungo lo Spoon River raccogliendo tante conchiglie
e tanti fiori e tante erbe medicinali…
gridando alle colline boscose, cantando alle verdi vallate.
A novantasei anni avevo vissuto abbastanza, ecco tutto
e passai a un dolce riposo.
Cos’é questo che sento di dolori e stanchezza
e ira, scontento e speranze fallite?

Figli e figlie degeneri,
la Vita é troppo forte per voi..
ci vuole vita per amare la Vita.

ELIZABETH CHILDERS
Polvere della mia polvere,
e polvere con la mia polvere,
o bimbo, che moristi mentre entravi nel mondo,
morto con la mia morte.
Che non conoscesti il Respiro, per quanto provassi,
e il cuore ti batteva quando vivevi con me,
e si fermò quando mi lasciasti per la Vita.
E’ bene così, bimbo mio. Così non percorresti 
la lunga, lunga strada che inizia coi giorni di scuola,
quando i ditini si appannano sotto le lacrime
che cadono sulle lettere storte.
E il primo dolore quando un piccolo amico
ti abbandona per andare con un altro;
e la malattia, e il volto della Paura accanto al letto;
la morte del padre o della madre;
o la loro  vergogna, o la miseria.
L’infantile dolore dei giorni di scuola finisce
e la natura ti fa bere
alla coppa dell’Amore, benchè tu sai che è avvelenata.
A chi si sarebbe levato il tuo viso fiorito?
Un botanico, fragile creatura?
Quale sangue avrebbe gridato all’unisono col tuo?
Puro o contaminato non importa,
é sempre sangue che fa appello al sangue.
E poi i figli – oh che sarebbero stati ?
E quale il tuo dolore? Bimbo! Bimbo!

La Morte é meglio della Vita!

Traduzione di F. Pivano

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