La zia d’America

La zia d’America esiste, non é solo una figura retorica: io  ce ne ho avuta una e l’ho conosciuta.
Si chiamava Pasqua e non so nemmeno in che modo mi era zia.
Era emigrata con altri della sua famiglia negli Stati Uniti, nell’ondata che seguì la fine della prima guerra mondiale.
Era analfabeta e il nonno Sante,  l’anarchico di cui ho parlato già in L’importanza del nome 1,  le aveva insegnato a leggere e scrivere, certo in modo elementare e approssimativo ma sufficiente per farsi capire.
La zia d’America si  materializzava nella mia vita di bambina come una fata che compiva la magia dell’apparizione de IL PACCO DALL’AMERICA.
Una volta all’anno circa babbo arrivava a casa con un enorme involto gonfio, ricoperto da una balla di juta, cucito con lunghi punti di spago, legato e sigillato con la ceralacca.
Sui fogli incollati o legati allo spago parole misteriose in grafie estranee.
L’America era per me l’attesa attorno al tavolo di vedere che cosa ci aveva mandato la zia e anche l’odore speciale e mai più sentito che emanava il grande fagotto.
Ne venivano fuori vestiti, cappotti, biancheria, sapone, lettere e foto nascoste fra le pieghe, coperte.Anche sigarette vere americane, Chesterfield e Camel,  per la gioia di mio padre fumatore. Ricordo la sua delusione la volta che avevano preso l’odore delle saponette!
Era roba usata, ma ancora in buono stato. Era  la testimonianza di come fossero bizzarri gli americani che, come ci scriveva la zia, se un tappeto ha un buchino invece di rammendarlo lo buttano via!!
Pensa te!!!
E io che allora portavo i vestiti fatti con le parti meno lise di vecchi vestiti ascoltavo la favola dell’abbondanza e della bizzarria dei ricchi.
Una di queste bizzarrie si materializzò in un pacco da cui uscì  un vestito da sera lungo, rosa, di frusciante seta lucida, con il bustino aderente e scollato, la gonna gonfia e un immenso fiocco rosa sul sedere. Anni dopo, guardando Happy days ho riconosciuto quel vestito in quelli indossati dalle studentesse alla festa della scuola, uguali.

Ma una volta la zia d’America arrivò di persona. Come raccontava lei aveva avuto la fortuna di scivolare sul ghiaccio davanti alla casa di gente che aveva una buona assicurazione e lei spese quel piccolo gruzzolo per venire in Italia con uno degli ultimi viaggi del transatlantico Constitution.  Dal che si deduce che la mia Zia d’America non era come quelle della figura retorica, non aveva fatto i soldi.
Aveva campato bene la famiglia e aveva contraccambiato l’accoglienza degli States  con la vita di un figlio morto in Corea.

L’incontro a Genova fu buffissimo: chi era andato ad accoglierla si aspettava una signora molto anziana, come era in effetti anagraficamente.
Il salone arrivi pian piano si svuotava e della zia nessuna notizia,  restava quasi solo una signora  vivace vestita a colori sgargianti con una testa gonfia di riccioli azzurri che si avvicinò e chiese se non gli sembrava ora di farsi avanti e abbracciarla.

Così era,  allegra, vivace e giovane, decisa a godere ogni cosa.
La prima mattina a  colazione, davanti alla tazzina di caffè  mi chiese:
“Ma questo caffè é cattivo?”
“No, é caffè buono!”
“Allora perché me ne vuoi dare così poco?”

Tutte le sere desiderava uscire, noi la  portavamo fuori, a cena,  a giocare a bocce, a passeggiare al mare  ed era un piacere sentire come si godeva le cose e come era felice dei progressi che aveva fatto l’Italia.
Non covava rancori né rimpianti.
Aveva espresso il desiderio di avere della frutta a colazione e, dato che viviamo in una zona di frutteti , le facevo trovare ogni giorno una cesta di frutta caravaggesca, fastosa e colorata.
Mi aveva colpito il piacere e la soddisfazione con cui annusava, toccava, gustava ogni frutto e non finiva più di lodarne il sapore, a me sembrava anche esagerata e le dissi che certamente  in America c’era di tutto e in abbondanza.
E lei mi rispose che si, ce n’era tanta di frutta, tutta incellofanata, che era bellissima, ma che se non la guardavi non sapevi nemmeno cosa stavi mangiando perchè era tutta ugualmente insapore.
Pensavo esagerasse.
Ogni tanto adesso, davanti ai banchi del supermercato, mi vengono in mente quelle parole e penso che con un ritardo di qualche decennio anche noi stiamo raggiungendo il livello di progresso e di civiltà di cui mi parlava.

2 pensieri riguardo “La zia d’America”

  1. Molto simpatica questa storia della zia d’America. Aveva ragione: in America tutto sembra bello (ci ho vissuto 5 anni), le mele grosse e lucide e senza sapore, il caffè abbondante e leggero come sciacquatura di piatti, i prati di fronte casa verdi più del verde, ma l’erba non profuma. Sai, quando mio figlio (che vive nel Michigan ed è nato a Los Angeles) viene qui, si fa scorpacciate di pizza bianca, di frutta vera e di spaghetti al ragù. Vuoi mettere?

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  2. Il tuo messaggio mi fa pensare che, con il tempo, dagli zii d’America si passa ai figli americani, ma evidentemente certe cose come i guasti dello sviluppo, purtroppo, restano.
    Sottoscrivo il menù, anche se propendo per la pizza alla marinara…
    Grazie del commento

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